Giovani, il diploma dà più lavoro della laurea

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Giovani,  il diploma dà più lavoro della laurea.

Calano le iscrizioni alle università e molti volano all’estero.

Scritto da Maria Lucia Panucci 

11 gennaio 2013

La crisi continua a colpire e a farne le spese sono soprattutto i giovani per i quali trovare lavoro sta diventando una vera e propria “mission impossible”. Secondo i più recenti dati Istat uno su tre è senza occupazione. Nel novembre 2012 le persone senza lavoro, nella fascia d’età compresa tra i 15 e i 24 anni, erano 641 mila. Si tratta di un record assoluto, ai massimi sia dalle serie mensili, ovvero da gennaio 2004, sia dalle trimestrali, cominciate nel quarto trimestre del 1992. «L 'incidenza dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca è pari al 37,1%, in aumento di 0,7 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 5,o punti nel confronto tendenziale», rileva l'Istat. E vola la disoccupazione giovanile anche nell'Eurozona. Secondo i dati di Eurostat, a novembre 2012 il tasso ha raggiunto il 24,4%, con 3,733 milioni di under 25 senza lavoro, a fronte del 21,6% dello stesso mese dello scorso anno. Il numero di quelli senza lavoro nell'area della moneta unica è balzato di 420 mila unità in un anno. Ma non è tutto perché tra i ragazzi  fino a 29 anni il tasso di disoccupazione dei laureati è decisamente più elevato rispetto a quello dei diplomati. I laureati senza lavoro tra i 25 e i 29 anni sono infatti il 16%, un livello superiore rispetto a quanto registrato dai diplomati nella stessa fascia d'età (12,6%). Ciò dipende dal più recente ingresso nel mercato del lavoro di chi prolunga gli studi, ma anche dalle maggiori difficoltà dei giovani di trovare un’occupazione stabile, nonostante il titolo di studio elevato. Il più alto tasso di inattività si registra al femminile e nel Mezzogiorno, dove più di sei donne su dieci risultano escluse dal mercato del lavoro. Insomma, a quanto pare, il diploma dà più lavoro della laurea. Nel 2011 risulta occupato il 45,7% dei diplomati che hanno conseguito il titolo nel 2007, ovvero quattro anni prima. Quelli con un lavoro di tipo continuativo sono oltre l’80% e circa il 37,8% sono dipendenti a tempo indeterminato mentre l’8,6% sono lavoratori autonomi. Il 34,6%, invece, ha fatto il suo ingresso nel mondo del lavoro attraverso forme di occupazione “non stabile” e deve ancora consolidare la propria posizione. Quasi un diplomato su cinque, infine, svolge solo lavori occasionali o stagionali. Tra i giovanissimi le sovrapposizioni tra attività di studio, lavoro e ricerca di occupazione sono abbastanza frequenti: poco più del 9% sono studenti lavoratori e il 7,2% studia e cerca lavoro. In questo periodo di forte crisi economica, i ragazzi sotto i 20 anni hanno l’ossessione di trovare presto un’occupazione stabile, qualunque essa sia, al punto di rinunciare anche all’istruzione terziaria, pur di trovare presto lavoro. Secondo il rapporto Censis 2012 sono sempre meno quelli che decidono di andare all’università. Nell’ anno accademico 2011-2012 si è registrato un’ulteriore diminuzione del 3% delle iscrizioni che va a sommarsi al meno 6,5% del periodo compreso tra il 2006-2007 e il 2010-2011. In Italia quattro intervistati su dieci si dicono convinti che non vale la pena avviare uno studio universitario. Si tratta di una percentuale pari al doppio della media europea (20%) che colloca il nostro Paese all'ultimo posto nel raffronto internazionale. Del tutto diversa la situazione in Germania o in Austria, dove solo l'11% degli intervistati non vede una reale prospettiva nello studio universitario. I giovani italiani e le loro famiglie, a quanto pare, non credono più che un titolo di studi elevato sia sufficiente per ottenere un posto più rapidamente o una remunerazione più alta rispetto a quella di un diplomato. Questo, unito alla consapevolezza che le figure professionali maggiormente richieste sono quelle tecniche, ha portato a un boom di studenti per i nuovi Istituti Tecnici Superiori e chi decide di proseguire gli studi continua su questa strada iscrivendosi a corsi di indirizzo tecnico-scientifico, mentre calano le  immatricolazioni ai corsi di laurea umanistici e a quelli del ramo sociale. I giovani italiani sembrano più che altro sfiduciati all’idea di trovare dopo la laurea un lavoro nella propria area di residenza e consono agli studi svolti. Timori del tutto fondati, dato che sono molti quelli costretti ad accettare occupazioni precarie o addirittura ad andare all’estero pur di costruirsi una propria indipendenza economica. Carla, 27 anni, ha dovuto nascondere di avere una laurea pur di lavorare come commessa in una nota profumeria. «Dopo gli studi ho mandato per mesi curriculum in tutta Italia ma non è mai arrivata nessuna proposta di un colloquio. Avevo bisogno di lavorare e così ho fatto domanda per fare la commessa in una profumeria. All’inizio non mi hanno presa a causa del mio titolo. Era troppo per ciò che sarei andata a fare. Scoraggiata, ho fatto un altro colloquio, omettendo di avere una laurea, e mi hanno preso senza problemi. Ora lavoro da circa un anno ma a tempo determinato e aspetto sempre che arrivi qualche proposta più adeguata ai miei titoli». Che sia per un breve periodo o per la vita sono tanti, forse troppi, i giovani laureati che cercano fortuna lontano dall’Italia. Vanno all’estero perché al di là dei confini nazionali le offerte di lavoro sono migliori. Perché è più facile essere soddisfatti di quello che si fa e perché la paga che offrono le imprese straniere è quasi il doppio di quella che si può ottenere nelle aziende italiane. I ragazzi e le ragazze, quando lasciano l’Italia, scelgono soprattutto il Regno Unito, la Francia, la Spagna e anche gli Stati Uniti. I dati sono quelli di AlmaLaurea che ha condotto uno studio su oltre 92mila laureati di 45 università. A cinque anni dalla laurea il 3% lavora fuori dai confini nazionali e quasi uno su cinque ha già un ruolo di rilievo. In particolare il 18% dei nostri laureati, che sono andati a lavorare oltre confine, ricopre posizioni direttive mentre in Italia succede solo all’8% dei loro coetanei. Per non parlare poi degli stipendi che all’estero sono decisamente più elevati. Un esempio? Un laureato in materie politico-sociali, a 5 anni dalla laurea, in Italia guadagna in media poco più di 1.300 euro al mese, negli altri paesi supera quota 1.900 euro, circa il 50% in più. Nel caso di un giovane ingegnere la differenza sfiora, poi, i 1.000 euro a mensilità. Insomma fuori dai confini lo scenario sembra più confortante. «All’estero ci sono molte più possibilità – spiega Giulia, fresca di laurea in biologia – Le prospettive qui non sono per nulla buone. La gavetta è esageratamente lunga e spesso si è sottopagati. In Inghilterra invece ci sono molte più possibilità perchè c’è una maggiore considerazione per i laureati. Mi trasferisco là con mio fratello che sta preparando la tesi in ingegneria. Nel frattempo io mi cercherò un lavoro. L’obiettivo? Rimanerci». Di fatto il fenomeno di questa emigrazione negli ultimi 10 anni è triplicato. E sembra destinato a crescere sempre di più. Per questo in occasione della prima Conferenza dei giovani italiani nel mondo, tenutasi lo scorso dicembre a Roma, è stata proposta la creazione di un database professionale ad hoc nel quale i giovani possono inserire il proprio curriculum e al quale gli imprenditori che vogliono investire sui mercati stranieri possano attingere direttamente. E se si ha l’intenzione di tornare indietro e valorizzare la propria esperienza anche in Italia? «Il problema della fuga dei cervelli – spiega Andrea Cammelli, direttore di AlmaLaurea – potrebbe risultare un falso problema in un mondo globalizzato dove, al contrario, la circolazione delle idee e dei talenti è auspicabile e necessaria. Il problema, semmai, sta nella capacità del nostro Paese di far rientrare chi esce, di tenere aperta la porta». In realtà alcuni riescono a capitalizzare l'esperienza fatta oltre confine. Racconta Marco Raveggi, che opera nella sede milanese della società di consulenza Jmac Europe: «Dopo aver lavorato due anni in Francia su un progetto di riqualificazione della rete aftersales di un'azienda automobilistica sono tornato in Italia. Qui mi sono immediatamente inserito nella divisione automotive di una realtà internazionale dove ho potuto valorizzare il know how acquisito». Non tutti però hanno la possibilità di volare all’estero in cerca di nuove opportunità lavorative. Molti sono costretti a tornare a casa da mamma e papà perché non ce la fanno a sostenere le spese. La storia di Elisa e Marco ne è un esempio. Lei 32 anni laureata in Economia, lui 34 laureato in Ingegneria. Nonostante gli anni di studio, nessuno dei due è riuscito a trovare un’occupazione stabile. Elisa lavora come commessa per uno stipendio misero e Marco si ammazza di straordinari in un’impresa di costruzioni. Ci sono il fitto e le bollette da pagare. I ragazzi non ce la fanno e quando Elisa rimane incinta, la nuova famiglia si trasferisce dai genitori di Marco. «Lavoro tutto il giorno per una miseria, mio marito lo stesso – ha detto Elisa – I pochi soldi che guadagnamo non bastano e io non vedo sbocchi. Se non ci fossero stati i miei suoceri ad aiutarci non so come avremmo fatto». È la quotidianità del precariato lavorativo che si traduce in precarietà esistenziale per quelli che, nonostante tutto, non rinunciano al progetto di una vita in due. La crisi lavorativa che sta colpendo soprattutto i giovani sta diventando nel nostro Paese una vera e propria piaga sociale che preoccupa anche il mondo politico ed istituzionale. Nella giornata di giovedì 20 dicembre il Presidente del Consiglio Mario Monti ha sottolineato come lo Stato debba approntare nuovi metodi per incentivare le imprese ad assumere giovani come investimento per il futuro del Paese. Ma anche l’Europa si sta muovendo, attingendo dal Fondo Sociale denaro per investimenti su corsi di formazione ed inserimento nel mondo del lavoro per gli under venticinque. E’ chiaro che questo non basta a cambiare le cose ma può essere l’inizio per dare speranza e fiducia di un futuro migliore ai nostri giovani.

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