La moneta si disintermedia

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Le banche hanno iniziato a studiare la criptovaluta vedendo un’ opportunità per migliorare l’efficienza. E di effettuare risparmi che potrebbero arrivare a 16 miliardi di dollari.

La blockchain rappresenta per il valore economico quello che internet è per l’informazione». Non hanno dubbi Deloitte ed Efma nel loro report sulla tecnologia rivoluzionaria alla base della criptovaluta più famosa del mondo: non solo trasforma il trasferimento di valore in un’esperienza digitale, ma rappresenta un vero e proprio breakthrough creando un sistema di certificazione decentralizzato e sicuro che elimina qualsiasi intermediario, sostituito con il consenso distribuito tra gli snodi della rete. Il risultato è una riduzione dei tempi e una maggior sicurezza, grazie a un protocollo open source che sfrutta una rete peer-to-peer e promette di scardinare l’intero sistema finanziario globale.
«Le banche sono morte», afferma provocatoriamente Andreas Antonopolous. O, meglio, «le banche così come le conosciamo oggi saranno una cosa ben diversa tra un paio di decenni» (si veda l’intervista sotto, ndr). Il guru del bitcoin potrà sembrare apocalittico, ma senz’altro la storia recente di internet ci ha insegnato che la rete ha già dispiegato i suoi effetti di disintemediazione sopra diversi settori di primo piano dell’economia, a partire dalle tlc. E ora anche le banche iniziano a pensare che qualcosa cambierà anche per loro. Senz’altro parlare di un settore delicato come quello che gestisce monete e pagamenti, e per questo oggi altamente regolamentato, consiglia cautela.
Invece il bitcoin ha creato un sistema che sfugge alle regole, dove perfino l’identità non è necessaria e dove la Banca centrale non ha più un ruolo perché è un algoritmo a determinare l’offerta di moneta. E la blockchain in forma pubblica e open source permette di trasformare qualsiasi transazione in una serie di blocchi digitali che vengono certificati dalla rete. Nel senso che sono gli stessi “miners” a validare quei blocchettini digitali che si aggiungono uno sopra l’altro e che non sono più modificabili (se non con una potenza di calcolo che al momento è inimmaginabile), registrando per sempre i diversi passaggi di mano di quel valore.
«Mi sembra molto simile a oro digitale, un token digitale che può essere trasferito, ma non duplicato», afferma Ferdinando Ametrano, Head of blockchain and virtual currencies per Intesa Sanpaolo e professore a Milano Bicocca. Ma non tutti sono così d’accordo: «Bitcoin è molto efficace nel trasferire il potere d’acquisto, ma decisamente più limitato nel crearlo: gestisce solo asset e non passività», ribatte Luca Fantacci, docente di storia economica alla Bocconi di Milano (si veda il commento nella pagina di fronte, ndr). Mentre Domenico Gammaldi, condirettore centrale Servizio supervisione mercati e sistema dei pagamenti di Banca d’Italia sottolinea come, dal suo punto di vista, la normativa antiriciclaggio e il “know your customer” siano i principi guida nell’incrocio tra valute legali e bitcoin. Il confronto è avvenuto nel corso dell’evento, organizzato da Deloitte, che, settimana scorsa a Milano, forse per la prima volta in Italia ha approfondito il dibattito sulla criptovaluta.
Spettatori interessati – e ora anche protagonisti attivi, più o meno timidi – una platea di banchieri e protagonisti del mondo della finanza interessati a capire un mondo che li riguarda da vicino. Le banche hanno infatti compreso che la blockchain è un’innovazione che impatterà in maniera disruptive sul loro business: ne è convinto, pur con sfumature differenti, il 92% dei manager del settore, stando al survey “Out of the blocks” di Deloitte ed Efma condotto tra 3mila executive del settore a livello europeo, convinti che al massimo entro cinque anni la tecnologia diventerà mainstream. Il venture capital ha scommesso 1,1 miliardi di dollari a livello globale nell’innovazione e nelle startup targate bitcoin, dei quali la metà (640 milioni) solo da inizio 2015, con un netto rimbalzo (160 milioni) nel primo trimestre di quest’anno.
Anche se, sottolinea Paolo Gianturco, partner di Deloitte responsabile per i servizi finanziari, il sondaggio segnala qualche contraddizione, dal momento che i due terzi degli interpellati indicano un’innovazione parziale: «Il 64% punta su una blockchain di proprietà o consortile, una soluzione “permissioned” più tradizionale, basata sul database, ben diversa da quella senza necessità di autorizzazioni e aperta che è alla base di bitcoin». In ogni caso le banche sono in una fase di studio e di valutazione della tecnologia e – per ben il 71% – non hanno ancora avviato nessuna iniziativa concreta sulla strada della “catena dei blocchi”, il cui ambito di applicazione prioritario è comunque indicato nei pagamenti (ben il 60%). Ma il rapporto conferma che a guidare la spinta al cambiamento non è tanto il timore di effetti devastanti sul settore(solo il 13% lo cita come elemento trainante), ma la sensazione di un’opportunità che si sta aprendo verso nuovi modelli di business e una maggior efficienza (57%).
La riduzione dei costi è la grande promessa della blockchain: la disintermediazione taglia le commissioni sui pagamenti, ma lo stesso modello potrà rendere più rapidi ed efficienti anche altri sistemi. Il consorzio R3Cev, che mette insieme i big globali della finanza, sta studiando l’applicazione della tecnologia al clearing e al settlement: «Solo in questo comparto si stimano risparmi attorno al 30% di un valore totale di 54 miliardi di dollari, il che significa 16 miliardi», sottolinea Sandra Ro, Head of digitalization del Chicago Mercantile Exchange, uno dei leader mondiali dei derivati. A breve dal Cme arriveranno annunci di applicazioni e sperimentazioni. Nel suo approccio alla blockchain la Borsa è partita da un passaggio semplice: formazione per tutti i dipendenti alla “cultura” del bitcoin.

di Pierangelo Soldavini

Nòva – Ilsole24ore

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