Mobbing: l’onere della prova spetta al lavoratore.

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Mobbing: l’onere della prova spetta al lavoratore.

Incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di allegare e provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro e solo se il lavoratore abbia fornito la dimostrazione di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi”.

Così è quanto chiarito dalla Suprema Corte con una recentissima sentenza del 3 Luglio 2015 n. 13693, ove chiamata a pronunciarsi in relazione al danno subito da una dipendente in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro qualificati dalla stessa come “mobbing”, respingeva le lamentele spiegate per difetto di prova in ordine alla sussistenza della condotta vessatoria -presupposto indefettibile per la configurazione dell’events dammi e degli effetti risarcitori connessi-, inoltre, uniformandosi alla giurisprudenza più remota precisava come “ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: 

  1. a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignitàdel dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioèl’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (cfr Cassazione Civile del 6 agosto 2014 n. 17698)”. Secondo gli Ermellini, la ricorrente avrebbe omesso di allegare e quindi dimostrare i fatti lamentati. In tema di responsabilità del datore di lavoro per violazione delle disposizioni dell’art. 2087 c.c., la Corte rileva come la parte che subisce l’inadempimento non deve dimostrare la colpa dell’altra parte ai sensi dell’art. 1218 codice civile, ma deve allegare e dimostrare l’esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state violate, provando che l’asserito debitore ha posto in essere un comportamento contrario o alle clausole contrattuali che disciplinano il rapporto o a norme inderogabili di legge o alle regole generali di correttezza e buona fede o anche alle misure che, nell’esercizio dell’impresa, debbono essere adottate per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (cfr. Cass.  civile del 11 aprile 2013 n. 8855 nonché Cass. civile del 14 aprile 2008 n. 9817).

Con la presente decisione la Corte ribadisce, altresì, un importante principio di diritto questa volta sotto l’aspetto dell’onere della prova gravante sul ricorrente in Cassazione ex art. 369, secondo comma, n. 4 c.p.c.., a pena di improcedibilità. La stessa sottolinea, con riferimento al caso in esame -in cui si evidenziava l’inadempimento della ricorrente relativamente all’onere di depositare copia dei contratti o degli accordi collettivi sui quali fondava la propria pretesa-, come il ricorrente per Cassazione, ove intenda dolersi dell’omessa o erronea valutazione di un documento ovvero di una disposizione contrattuale collettiva da parte del giudice di merito , “ha il duplice onere– imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 – di produrlo agli atti e di indicarne il contenuto. Il primo onere va adempiuto indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale e in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione; il secondo deve essere adempiuto trascrivendo o riassumendo nel ricorso il contenuto del documento”.

In conclusione, i Giudici di legittimità nella sentenza in commento rimarcano, inoltre, come sia la denuncia della violazione delle regole di ermeneutica che la denuncia del vizio di motivazione esigono la precisazione del modo attraverso il quale si è realizzata la violazione anzidetta e delle ragioni dell’obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento del giudice, non potendo le censure risolversi, in contrasto con la qualificazione loro attribuita dalla parte ricorrente, nella mera contrapposizione di un’interpretazione diversa da quella criticata.

Leggi qui la sentenza Cass. Civ. sez. lavoro del 03 luglio 2015 n° 13693.

Fonte: Altalex.

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