Presunta attività d’impresa stop all’accertamento per prelievi sospetti.

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Presunta attività d’impresa, stop all’accertamento per prelievi sospetti.

Cassazione Tributaria, sentenza depositata il 30 giugno 2015

L’Ufficio finanziario non può presumere ricavi “in nero” sulla base dei prelevamenti in banca, se la Guardia di Finanza ha accertato che il contribuente, nell’anno di riferimento, non ha svolto attività d’impresa.
È quanto emerge dalla sentenza 30 giugno 2015 n. 13369 della Corte di Cassazione (Sesta Sezione Civile – T).
Gli ermellini hanno rigettato il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate, nell’ambito di una controversia concernente un avviso di accertamento per imposte emesso ai sensi dell’art. 32 del D.P.R. 600 del 1973.
Secondo la ricorrente Agenzia, il giudice dell’appello non avrebbe dovuto annullare la pretesa fiscale, posto che ai sensi dell’art. 32 citato – oltreché dell’art. 51 del decreto IVA – opera un’inversione dell’onere della prova per cui non è possibile esigere dall’Ufficio la dimostrazione dello svolgimento di un’attività d’impresa da parte del contribuente.
Ebbene, la suddetta doglianza non ha trovato ingresso nel giudizio davanti alla Suprema Corte.
L’Ufficio finanziario ha qualificato come ricavi non dichiarati, nell’esercizio della ritenuta attività d’impresa, i numerosi prelevamenti e contestuali versamenti operati dal contribuente sul proprio conto corrente bancario.
Il giudice dell’appello, però, ha escluso l’esistenza del presupposto giudico – l’esercizio dell’attività d’impresa – per ritenere integrata la fattispecie prevista dall’art. 32 del D.P.R. 600/73 (comma 2, n. 2), costituente fondamento unico dell’avviso di accertamento in questione, giacché la GdF aveva accertato che il contribuente non aveva mai svolto attività d’impresa nel ramo edile.
Gli ermellini ritengono che nella sentenza gravata la CTR non abbia messo in discussione il principio in base al quale, quando sussistono flussi finanziari che non trovano corrispondenza nella dichiarazione dei redditi, i dati risultanti dai conti correnti bancari possono essere utilizzati sia per dimostrare l’esistenza di un’eventuale attività occulta (impresa, arte o professione) sia per quantificare il reddito ricavato da tale attività, incombendo al contribuente l’onere di dimostrare che i movimenti bancari che non trovano giustificazione sulla base delle sue dichiarazioni non sono fiscalmente rilevanti.
La CTR, ad avviso degli ermellini, ha considerato il principio per cui i dati risultanti dai conti correnti bancari possono essere utilizzati per dimostrare l’esistenza di un’eventuale attività occulta “ma ha ritenuto che la presunzione di esercizio di attività occulta basata sui movimenti dei conti bancari del contribuente, ai sensi degli articoli 32 d.p.r. 602/773 e 51 d.p.r. 633/72, sarebbe stata nella specie superata dall’accertamento positivo, operato nel verbale di contestazione della Guardia di Finanza, che nell’anno in esame il contribuente non aveva mai svolto attività nel ramo dei lavori edili”.
E allora i giudici del Palazzaccio hanno bollato come infondato il ricorso del fisco, al quale sono state addebitate le spese del giudizio.
Gli ermellini hanno anche condannato la parte pubblica al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato ai sensi dell’articolo 13 comma 1-quater del TUSG.
Fonte: Fiscal Focus
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