Trust e dintorni: la necessaria chiarezza

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Trust e dintorni: la necessaria chiarezza

di Massimo Giuliano

in TRUSTS E ATTIVITÀ FIDUCIARIE – 5/2017

Abstract

Una parte della dottrina ritiene che con l’introduzione dell’art. 2645-ter c.c. nel nostro ordinamento si possa parlare di trust di diritto interno, vale a dire di un trust interno che vincola beni che
si trovino nel nostroPaese ed è istituito in Italia da cittadini italiani, in cui tutti gli elementi “importanti” sono italiani, compresa la legge regolatrice. Dopo una breve analisi dell’art. 2645-ter c.c., anche in relazione alla Convezione de L’Aja, si espone una diversa opinione che punta a distinguere il trust interno, regolato da una legge straniera, dagli altri negozi destinatori di diritto interno.

Introduzione
I numerosi scritti sull’argomento e il luogo in cui è ospitata questa ricerca ci consentono di dare per acquisiti alcuni tra i concetti fondamentali posti alla base del diritto dei trust (1), per cui ci
limiteremo ad effettuare solo alcuni accenni di disciplina utili ai fini del nostro discorso. Ricordiamo che solo con la Convenzione de L’Aja del 1° luglio 1985 sulla legge applicabile ai trust e al loro
riconoscimento (Legge 16 ottobre 1989, n. 364, entrata in vigore il 1° gennaio 1992, di seguito “Convenzione”), il trust ha trovato riconoscimento nel nostro Paese, per quanto manchi ancora una
legge che lo disciplini in ogni suo aspetto. Per trust intendiamo un rapporto giuridico fondato sulla fiducia tra due soggetti (salvo il caso di trust “auto-dichiarato”), il disponente e il fiduciario (trustee), che si attua allorquando il disponente trasferisce, per atto tra vivi o mortis causa, determinati beni o diritti a favore del trustee, che li amministra e li gestisce con diritti, poteri e facoltà
di un vero proprietario, nell’interesse di uno o più beneficiari o per un fine determinato (2). Tuttavia, se a livello descrittivo tale definizione rende idea del fenomeno gestorio sotteso all’istituto, ladisciplina calata nell’atto istitutivo, in parte dettata dal disponente in sede di redazione dell’atto e in parte dettata dalla legge straniera scelta dallo  stesso dispo- nente, disvela una capacità regolatoria degli interessi sottesi all’istituto che  nessuno strumento civilistico interno è in grado di replicare. La dottrina cui si deve l’effettiva appropriazione del flusso giuridico trust nel nostro ordinamento interno, interpretando la Convenzione e le norme  interne in modo da fonderle e incasellarle entro la figura del trust c.d. interno, di cui si dirà a breve, ha avvertito che si
deve parlare di trust al plurale (3), proprio per porre in luce l’inesistenza di una dimensione  sistematica all’in- terno del mondo della common law e l’esistenza di una pluralità di discipline  che si occupano del diritto dei trust. Accanto al modello di diritto inglese si sono, infatti,  affiancati modelli appartenenti all’area della common law, quale il modello australiano, neo- zelandese, canadese e statunitense – caratterizzati, peraltro, al loro interno da leggi locali sui  trust – e un modello c.d. internazionale, frutto delle legislazioni speciali di ordinamenti  civilistici o misti, strettamente legati al modello tradizionale, come quello di San Marino (4), Malta, Mauritius, Guersey e Jersey.
Poi c’è il modello nascente dalla Convenzione de L’Aja, detto anche “amorfo” (5) o shapless (6),  per indicare appunto una nozione di trust che tende a discostarsi da quello tradizionale inglese (7) e da quello internazionale, e alla quale potrebbero essere sussunte altre fattispecie giuridiche similari, proprie del nostro ordinamento o di altri ordinamenti, ancorché regolato dalla
una legge (straniera) che lo disciplini in tutti i suoi aspetti. Elementi comuni a tutti questi modelli sono l’affidamento (8) e la segregazione mentre le legislazioni appar- tenenti al modello del trust internazionale e quelle civilistiche ignorano l’elemento delle obbligazioni fidu- ciarie (9). È evidente che il “flusso giuridico” (10) che ha portato all’“appropriazione dei principi e delle regole del diritto civile da parte del diritto inglese” e che, quindi, ha consentito la metabolizzazione del trust da parte della nostra dottrina, della giurisprudenza e della prassi negoziale, per il perseguimento di interessi che altrimenti non sarebbero attuabili o non lo sarebbero con la medesima efficienza, con gli istituti civilistici a noi noti, non avrebbe potuto “impiantare” forzosamente secoli di tra- dizioni e concetti da noi ignorati, come quello del diverso modo di “possedere” o di “appartenenza” di un bene, diversamente inteso nella mentalità del giurista di civil law (11). In questo processo di recepimento, il trust, è bene subito precisarlo, così come introdotto nel nostro ordinamento per effetto della Convenzione de L’Aia è e resterà un istituto regolato da una legge straniera, quand’anche abbia tutti i suoi elementi principali, soggettivi e oggettivi, situati nel territorio italiano. Questo rilievo assume un’importanza fondamentale nel momento in cui il giurista si accinge ad esaminare  l’istituto nella sua concreta applicazione, posto che non potrà fare a meno di esaminarlo alla luce della legge straniera che lo regola, poiché non vi è dubbio che uno stesso trust può essere per un ordinamento valido ed efficace ed essere o nullo e  privo di effetti per altri ancora. Cosicché, non si potrà pensare di adattare, gestire e modellare i trust regolati da una legge  straniera in relazione allo strumentario normativo che il nostro ordinamento ci fornisce perché “la fisionomia è neces- sariamente quella tracciata dal diritto straniero – per la precisione dallo specifico diritto straniero che disci- plina il trust in questione- e il nostro compito è allora
dovrà essere solo quello di studiare i diritti stranieri e applicarli” (12). Per un altro verso si sta assistendo, sotto la spinta del flusso giuridico cui ha dato ingresso  l’istituto anglo- sassone, all’emersione di fattispecie contrattuali “di affidamento fiduciario”
che, al di là della loro struttura contrattuale, peraltro non esclusa neanche nel diritto dei  trust, perseguono i medesimi scopi del trust, forse in modo più efficiente e comprensibile per  l’operatore, se non altro per la disciplina tutta interna a esse applicabili. Non appaiono,  invece, convincenti, come illu- streremo nel prosieguo, quegli orientamenti dottrinali, pur  autorevolmente sostenuti, che tenderebbero ad italianizzare il trust facendo applicazione,  esclusiva- mente, tanto nei rapporti interni, tra i soggetti protagonisti del trust, quanto nei  confronti dei terzi, delle norme dell’ordinamento giuridico interno.

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Studio Giuliano e Di Gravio

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