Infortunio sul lavoro e recupero delle indebite rendite Inail

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CASSAZIONE CIVILE – SEZIONE LAVORO

SENTENZA N. 19496 DEL 16 SETTEMBRE 2014

La ripetizione di somme erogate dall’Inail in esecuzione di una sentenza successivamente riformata non si inquadra nell’ipotesi dell’indebito oggettivo di cui all’art. 2033 c.c., né è disciplinata dalla normativa speciale prevista per gli indebiti previdenziali, perché si ricollega ad un’esigenza di restaurazione della situazione patrimoniale precedente alla sentenza, per cui il diritto alla restituzione sorge direttamente dalla riforma della sentenza che fa venir meno, con efficacia retroattiva, l’obbligazione di pagamento ed impone il ristabilirsi della situazione patrimoniale anteriore.

ING. MARIO SCOLA

IL CASO
Un lavoratore, titolare di rendita Inail per postumi da infortunio sul lavoro riconosciutigli nella misura del 52%, ottenne dal giudice del lavoro del Tribunale il riconoscimento del diritto alla superiore percentuale del 60% dei predetti postumi a decorrere dal mese di novembre del 2005.
In seguito tale decisione venne parzialmente riformata in secondo grado, ove venne accertato un aggravamento dei postumi nella diversa minor misura del 57% a decorrere dal mese di febbraio del 2008. L’Inail, che aveva posto in esecuzione la sentenza di primo grado, agì per il recupero delle somme corrisposte in eccedenza rispetto a quelle dovute in misura inferiore, così come accertata in sede d’appello, e a tal fine operò la trattenuta di 1/5 sul rateo mensile della rendita. Il lavoratore propose ricorso al Tribunale, in funzione di giudice del lavoro, per far affermare che non poteva esservi compensazione del credito vantato dall’Inail con l’ammontare della rendita inizialmente liquidatagli in misura maggiore. Il Tribunale ha rigettato la domanda e ciò è stato confermato dalla Corte d’Appello.
Il lavoratore ha presentato ricorso per Cassazione, che è stato rigettato, sulla base del principio secondo cui “i limiti alla ripetibilità di prestazioni previdenziali indebite, poste dalla normativa in materia, non trovano applicazione in relazione ai pagamenti effettuati dall’istituto previdenziale in esecuzione di sentenze non passate in giudicato riformate in sede di impugnazione, poichè in tal caso l’obbligo di restituzione si fonda sul disposto dell’art. 336 c.p.c., comma 2, e sull’assoggettamento del percettore (indipendentemente dalla ravvisabilità o meno di un suo dolo) al rischio dell’attuazione della tutela giurisdizionale invocata”.

IL COMMENTO
1. INDEBITO ARRICCHIMENTO E RIPETIZIONE DELLE SOMME EROGATE DALL’INAIL

Com’é noto, la regola codicistica dell’indebito oggettivo, dettata dall’art. 2033, in ordine alla normale ripetibilità dell’indebito, fu attenuata, nell’ambito della previdenza sociale, originariamente dall’art. 80 del regolamento, approvato con R.D. 28 agosto 1924, n. 1422, per l’esecuzione del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3184, recante provvedimenti per l’assicurazione obbligatoria contro l’invalidità e la vecchiaia.
In base a quella antica disposizione, che assegnava (primo comma) al “Comitato esecutivo della Cassa nazionale per le assicurazioni sociali il controllo sopra le liquidazioni di pensioni effettuate dagli Istituti di previdenza, in tutti i modi da esso ritenuti più appropriati”, e di cui il secondo comma tracciava gli effetti dell’intervento, individuando provvedimenti di revoca, rettifica, sospensione, nonché sollecitazioni istruttorie, il terzo comma prevedeva: “Le assegnazioni di pensione si consideravano definitive quando, entro un anno dall’avviso datone all’interessato, non fossero state respinte dalla Cassa nazionale; in tal caso, le successive rettifiche di eventuali errori, che non siano dovuti a dolo dell’interessato, non hanno effetto sui pagamenti già effettuati”.
Successivamente, all’atto della “ristrutturazione dell’Inps e dell’Inail”, l’art. 52 della L. 9 marzo 1989, n. 88, per l’Inps, e l’art. 55, per l’Inail, ribadirono convergentemente, affinandolo, questo principio.
In particolare, a fronte dell’art. 52, l’art. 55, con norma parallela per l’Inail, dettò: “Le prestazioni a qualunque titolo erogate dall’Inail possono essere in qualunque momento rettificate dallo stesso istituto in caso di errore di qualsiasi natura commesso in sede di attribuzione, erogazione o riliquidazione delle prestazioni. Nel caso in cui siano state riscosse prestazioni risultanti non dovute, non si dà luogo a recupero delle somme composte, salvo che l’indebita percezione sia dovuta a dolo dell’interessato …”.
Senza voler qui ricordare l’art. 13, comma 1, della L. 30 dicembre 1991, n. 412, (Disposizioni in materia di finanza pubblica), che dettava un’interpretazione autentica (e quindi retroattiva) dell’art. 52, su cui poi intervenne la Corte delle leggi, con sentenza n. 39 del 1993, sancendone l’illegittimità costituzionale nella parte in cui esso era applicabile anche ai rapporti sorti precedentemente alla data della sua entrata in vigore o comunque pendenti alla stessa data, in questa travagliata vicenda va segnalato, ancora, l’art. 1 della L. 23 dicembre 1996, n. 662, recante “Misure di razionalizzazione della finanza pubblica”. Detto articolo, al comma 260, ha stabilito che: “Nei confronti dei soggetti che hanno percepito indebitamente prestazioni pensionistiche o quote di prestazioni pensionistiche o trattamenti di famiglia nonché rendite, anche se liquidate in capitale, a carico degli enti pubblici di previdenza obbligatoria, per periodi anteriori al 1 gennaio 1996, non si fa luogo al recupero dell’indebito qualora i soggetti medesimi siano percettori di un reddito personale imponibile IRPEF per l’anno 1995 di importo pari o inferiore a lire 16 milioni”.
In relazione a questo intervento, di carattere limitato nel tempo, il successivo comma 261 limita il recupero dell’indebito ai tre quarti della somma riscossa nel caso di reddito personale imponibile IRPEF per l’anno 1995 di importo superiore a lire 16 milioni, mentre il 265^ comma prevede, infine,
che in caso di dolo del soggetto che abbia indebitamente percepito i trattamenti INPS, INAIL e pensionistici di guerra, il recupero si esegue sull’intera somma.
Sempre in questo “filone” unificato, merita solo un cenno, infine, non essendo qui rilevante, perché non ancora entrato in vigore, il d.P.R. 23 febbraio 2000, n. 38 (G.U. 1 marzo 2000, pt. gen., n. 50) sulla “rettifica per errore (art. 9), che introduce ulteriori innovazioni al riguardo.
Questo rapido excursus, come ha anche già avuto modo di rilevare la sentenza n. 10694 del 13 ottobre 1995, sancisce il principio secondo cui “l’obbligo del soccombente di restituire – a seguito della sentenza di riforma del giudice di appello (passata o non in giudicato, ai sensi, rispettivamente, dell’art. 336, comma 2, c.p.c. nel testo anteriore o posteriore alla modifica operatane dall’art. 48 della L. 353 del 1990) – quanto ricevuto a titolo di pensione in esecuzione del provvedimento giudiziale riformato in sede d’impugnazione, costituisce – restando al riguardo inapplicabili le previsioni d’irripetibilità sancite dall’art. 80 del regolamento approvato con R.D. 28 agosto 1924, n. 1422 e dall’art.52 (in questo caso: 55) della L. 9 marzo 1989, n. 88 – una conseguenza “normale” dell’esito della vicenda processuale ai sensi degli artt. 336 e 337 c.p.c., attesi il definitivo accertamento dell’insussistenza del titolo alla percezione ed il correlativo assoggettamento del percettore dell’indebito all’obbligo (indipendentemente dalla ravvisabilità o no del dolo del medesimo) di sopportare il rischio dell’attuazione della tutela giurisdizionale invocata”.
2. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

La vicenda all’esame di questo Collegio, e la conseguente inapplicabilità della previsione d’irripetibilità di cui ai citati artt. 80 del regolamento del 1924 e 52 della legge del 1989 (come interpretato dal riferito insegnamento giurisprudenziale), non attiene, infatti, a un indebito determinato dalla rettifica di errori di calcolo o di determinazione del quantum della prestazione, in base ad un intervento ex officio dell’Ente, essendosi, per contro, verificato in relazione ad un provvedimento giurisdizionale, in sede d’appello. Pertanto, in questo contesto, la sospensione dell’erogazione tendeva, esclusivamente, a riequilibrare, come poi verificato dalla CTU espletata nel giudizio d’appello, un rapporto economico di mera natura contabile, intercorrente tra le parti.
In tale ipotesi, concordando il Collegio con quanto argomenta al riguardo la Cass. civ., n. 10694 del 1995, indipendentemente dalla ravvisabilità o no del dolo del percettore (consapevole, peraltro, dell’aleatorietà del giudizio), l’obbligo del soccombente di restituire – a seguito della sentenza di riforma del giudice d’appello, e poi di rinvio, quanto ricevuto in eccesso a titolo di rendita, in esecuzione della sentenza originaria, riformata in sede d’impugnazione, costituisce una conseguenza fisiologica dell’esito della vicenda processuale ai sensi degli artt. 336 e 337 c.p.c., stante il definitivo accertamento dell’insussistenza del diritto ad ottenere la somma originaria, con correlativo assoggettamento del percettore dell’indebito all’obbligo di sopportare il rischio dell’attuazione della tutela giurisdizionale invocata.
D’altra parte, agli stessi principi si rifà, mutatis mutandis, Cassazione 9 giugno 1998, n. 5667 (v. anche SS.UU., 13 giugno 1989, n. 2841, nonché, Cass., 3 luglio 1997, n. 5955, in motivazione), che
esclude la riconducibilità dell’azione di restituzione proposta, a norma dell’art. 389 c.p.c., dalla parte vittoriosa nel giudizio di cassazione, allo schema della condictio indebiti, prescindendosi in tali casi dalla buona o mala fede dell’accipiens, non trattandosi, ovviamente, dell’istituto della compensazione, che presuppone l’autonomia dei rapporti, cui si riferiscono i contrapposti crediti delle parti. L’istituto della compensazione, infatti, non è configurabile allorché i rispettivi crediti e debiti abbiano origine da un unico rapporto, poiché, in tal caso, la valutazione e definizione delle reciproche pretese, importa soltanto un semplice accertamento contabile di dare ed avere. (v. Cass. civ., 23 aprile 1998, n. 4174; 23 gennaio 1999, n. 648).

FONTE : FISCO E TASSE

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