Avviso di accertamento con motivazione sostanziale.
L’Agenzia delle Entrate rettificava ad un avvocato il reddito dichiarato contestando sia compensi non contabilizzati e sia il difetto di idonee giustificazioni per le movimentazioni finanziarie. Il provvedimento veniva impugnato dinanzi alla CTP, la quale respingeva il ricorso. Il collegio di appello, invece, cui si era rivolto il contribuente, riformava la decisione rilevando che l’atto impositivo era privo di sufficiente motivazione. In particolare, l’ufficio non aveva indicato né le ragioni per le quali era stata riscontrata un’asserita differenza di compensi contabilizzati, né , più in generale, i motivi della rettifica.
L’Agenzia delle Entrate ricorreva allora per cassazione lamentando, in estrema sintesi, che la CTR aveva trascurato che, in realtà, il provvedimento era fondato sulla discrasia tra i compensi dichiarati ai fini delle imposte dirette e quelli IVA, oltre che in ogni caso sulla mancanza di documentazione giustificativa dei prelevamenti e versamenti sul conto corrente.
La decisione della Corte.
Sebbene abbia dichiarato l’inammissibilità del ricorso presentato dall’Ufficio, la Suprema Corte ha fornito un interessante chiarimento sull’obbligo di motivazione degli atti.
Innanzitutto dal testo della norma IVA (art. 54, D.P.R. n. 633/1972) non si evince che si assolva l’obbligo motivazionale semplicemente prospettando l’esistenza di corrispettivi in tutto o in parte non dichiarati, senza che sia indicata almeno in via generale la fonte del proprio convincimento.
Gli uffici, normalmente, contrastano tali doglianze, richiamando un passato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale la motivazione dell’avviso di accertamento ha l’esclusiva funzione di affermare la pretesa tributaria e di provocare la difesa del contribuente (c.d. provocatio ad opponendum).
Secondo questa interpretazione, l’atto è sufficientemente motivato quando consenta al contribuente di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e di contestarne efficacemente l’an ed il quantum debeatur, bastando così a tal fine l’indicazione degli elementi soggettivi ed oggettivi della pretesa tributaria, con i fatti astrattamente giustificativi della stessa.
La Cassazione, tuttavia, discostandosi da tali principi, ha rilevato che nel rispetto dello Statuto del contribuente (art. 7, legge n. 212/2000) e delle norme in tema di accertamento (art. 42, D.P.R. n. 600/1973), l’Amministrazione è obbligata ad indicare i presupposti di fatto e di diritto che hanno determinato il provvedimento. Ne consegue così che la motivazione deve essere sostanziale e non solo formale, poiché non occorre solo per “provocare la difesa del contribuente”, ma integra un elemento essenziale dell’atto, sulla cui base va circoscritto l’eventuale successivo giudizio.
In altre parole, il giudice tributario deve controllare l’operato dell’amministrazione basandosi sul contenuto del provvedimento impugnato e sulle prove prodotte dal ricorrente. I giudici di legittimità hanno altresì richiamato i principi della Corte Costituzionale (n. 244/2009 e n. 98/2014) secondo i quali non è modificabile in corso di causa la motivazione dell’avviso notificato.
Alcune considerazioni.
La decisione è particolarmente interessante poiché sovente gli uffici dinanzi ad una contestazione del contribuente sul possibile vizio di motivazione, integrano i presupposti della pretesa nella costituzione in giudizio, giustificando il proprio operato sul pregresso orientamento.
Secondo tale tesi, l’accertamento ha natura di “atto provvedimentale” in quanto gli effetti si realizzano compiutamente solo con il decorso dei termini previsti per rettificare la dichiarazione ovvero per impugnare l’atto stesso e quindi ha la sola funzione di provare l’accertamento sul presupposto. Secondo l’Agenzia quindi, l’attività istruttoria e di accertamento è l’inizio di un’ulteriore attività di ricostruzione del rapporto tributario da svolgersi in sede contenziosa e gli effetti sostanziale dell’atto si producono solo a seguito dell’accettazione del contribuente o con il provvedimento giurisdizionale (Cassazione n. 11305/1996).
L’orientamento, tuttavia, così come rilevato dalla Cassazione nella decisione n. 20251/2015, è cambiato.
Con la sentenza n. 22003/2014 ha affermato che la motivazione ha la funzione di rispondere al principio di buona amministrazione, secondo il quale l’azione amministrativa risulti esplicata in modo appropriato in vista del perseguimento dell’interesse presidiato dalla legge.
Secondo i giudici di legittimità, l’art. 7 dello Statuto ha chiaramente manifestato l’intento di costruire la motivazione, non come mera enunciazione di una pretesa soggetta a verifica processuale, ma come ratio di una decisione assunta all’esito di una istruttoria.
L’atto impositivo spiega così il nesso corrente tra la norma tributaria e l’obbligazione affermata esistente nella situazione concreta, onde circoscrivere la materia del contendere.
Con la sentenza n. 9810/2014 è stato ulteriormente precisato che la motivazione dell’atto tributario costituisce lo strumento essenziale di garanzia del diritto di difesa del contribuente e pertanto vanno indicate tutte le conoscenze dell’ufficio poste a base della pretesa. Questi elementi costituiscono i confini del processo tributario: l’ufficio, infatti, non può integrare le ragioni nel corso del giudizio ed il giudice deve decidere solo sugli elementi desumibili dall’atto impugnato.
Leggi qui Corte di Cassazione, sez. trib., sentenza 09 ottobre 2015, n. 20251
Fonte: Ipsoa.