Il lusso italiano alla prova del passaggio generazionale
Un fatturato complessivo da 11,254 miliardi di euro e un utile netto da 550 milioni. Questi i numeri complessivi della moda e del lusso italiano alla prova del passaggio generazionale nel prossimo futuro.
E lusso e moda, nella partita Francia-Italia, sono uno degli snodi a cui si guarda con maggiore interesse, proprio in quest’ottica. Storicamente, infatti, l’Italia ne è sempre uscita vedendo i suoi brand “conquistati” dai grandi colossi del lusso francese. Kering, che diffonderà i dati 2016 il 10 febbraio prossimo, vanta brand italiani come Gucci, Brioni, Bottega Veneta e Pomellato, mentre Lvmh, che ha chiuso il 2016 con un fatturato record a 37,6 miliardi di euro (+5%), può contare nel proprio portafoglio marchi italiani come Fendi, Emilio Pucci, Bulgari e Loro Piana.
Proprio in occasione dell’acquisizione di questi ultimi due in Italia si riaccesero le polemiche della perdita di brand a favore di gruppi esteri. Fu proprio l’allora ad di Bulgari, Francesco Trapani, a sottolineare la difficoltà di creare in Italia un polo del lusso: «Volevamo un polo italiano ma nessuno ci ha risposto. Ho provato in tutti i modi: eravamo quotati e tra le aziende più grandi, e ho proposto alla stragrande maggioranza dei bei nomi italiani della moda e del lusso di studiare delle alleanze. Ho anche proposto di non avere noi il controllo e la gestione. Ma la risposta è sempre stata negativa. Tutti hanno preferito tenere il controllo anche a costo, magari, di avere dei problemi». Era il 2011 e del polo italiano del lusso non se n’è più parlato, tanto che i singoli gruppi hanno cercato, e a volte trovato, la via da percorrere “stand alone”. Come Prada, che ha scelto la quotazione in Borsa ad Hong Kong nel giugno 2011, e Versace, che ha aperto il capitale cedendo il 20% al fondo americano Blackstone nel febbraio 2014. Soluzioni, certo, non definitiva per il passaggio generazionale che dovranno affrontare, quanto piuttosto un primo passo.
Chi ha già messo a punto una soluzione per il futuro è Giorgio Armani, che nel luglio scorso ha annunciato, con un comunicato, la nascita della Fondazione Giorgio Armani: «Ho deciso di creare la Fondazione Giorgio Armani per realizzare progetti di utilità pubblica e sociale. Contestualmente la Fondazione assicurerà nel tempo che gli assetti di governo del gruppo Armani si mantengano stabili, rispettosi e coerenti con alcuni principi che mi stanno particolarmente a cuore e che da sempre ispirano la mia attività di designer ed imprenditore». Gli eredi, i tre nipoti, già siedono nel cda della società, che ha registrato nel 2015 ricavi in crescita a 2,66 miliardi, un margine operativo lordo da 518,7 milioni, un utile netto di 240,8 milioni e ha disponibilità liquide nette a 654,4 milioni.
Renzo Rosso, classe 1955, dal canto suo ha creato un polo di marchi tutto italiano e intende continuare nelle acquisizioni anche in futuro. La sua Otb (Only the brave), che nel 2015 ha visto ricavi 1,59 miliardi, un margine operativo da 74 milioni e un utile netto di 3,5 milioni, oltre a controllare Diesel, conta brand come Marni, Maison Margiela, Viktor&Rolf e Paula Cademartori. E il fondatore pensa già al futuro, al management e ai suoi figli, tanto da mettere in conto, fra qualche anno, la quotazione in Borsa.
Ben oltre il miliardo di fatturato anche Max Mara della famiglia Maramotti. I tre figli del fondatore hanno diversificato gli investimenti rispetto alla moda, puntando anche su partecipazioni finanziarie.
La famiglia è particolarmente riservata e le società sono controllate attraverso fiduciarie. Se, però, si può prendere a paradigma quanto stabilito per la società Unione della famiglia, la suddivisione è equamente ripartita per i tre rami della famiglia: Ignazio, Luigi e Maria Ludovica, che contano nel complesso a loro volta nove figli (Sebastiano, Maria Giulia, Edoardo, Costanza, Alice, Luca, Fabia, Caterina ed Elia).
Interesse desta anche il futuro di Ermenegildo Zegna che a fronte di 1,2 miliardi di fatturato conta un Ebitda di 146 milioni (11,6% delle vendite) e un utile netto di 45 milioni e quello di Dolce&Gabbana, 1,18 miliardi di fatturato e un Ebitda margin del 12 per cento. Nel primo caso un riassetto dell’azionariato fra i nipoti si era già registrato nel 2014, con quote differenti fra gli eredi.
Resta il fatto che si tratta di gruppi che fanno gola sia ai fondi di private equity sia ai gruppi d’investimento internazionali, dagli arabi ai cinesi. Per non parlare poi della corte che subiscono da parte delle piazze finanziarie, che vorrebbero averli nel loro parterre. Le opzioni non mancano. E’ necessario solo restare appetibili grazie a risultati finanziari in continua crescita.
Fonte: IlSole24Ore
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