La voluntary disclosure 2.0 nel labirinto di black e white list
La Svizzera è un Paese da black o white list? E chi opera con Hong Kong ha a che fare con una giurisdizione fiscale trasparente o no? Non sono questioni da poco, ora che si riapre la possibilità della voluntary disclosure. Perché l’accavallarsi dei trattati, delle intese bilaterali e degli impegni alla trasparenza ha creato un intreccio normativo che è ancora più urgente dipanare.
La legge di bilancio apre la nuova fase della voluntary, per consentire di regolarizzare quanto ancora detenuto in violazione degli obblighi fiscali e offrire una “finestra” in questa fase di contrasto, a livello nazionale e sovranazionale, alle giurisdizioni fiscali opache. Sulla voluntary disclosure bis gravano tuttavia alcuni aspetti di mancato coordinamento normativo: infatti, via via che prendono forma ed efficacia gli accordi per la reciproca trasparenza con i Paesi ex-paradisi fiscali, emergono le posizioni critiche nella normativa nazionale. Posizioni che è urgente chiarire per accompagnare le operazioni di regolarizzazione.
L’Italia ha concluso recentemente numerose convenzioni e accordi sullo scambio di informazioni con Stati prima considerati paradisi fiscali (Hong Kong, Liechtenstein, Monaco, Singapore e Svizzera i principali). La Commissione europea ha avviato le procedure per definire un elenco di giurisdizioni fiscali non cooperative che dovrebbe vedere la luce entro il 2017. Le modifiche derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali vincolano il legislatore italiano, essendo fonti sovraordinate rispetto al diritto interno in ragione di quanto previsto dall’articolo 117 della Costituzione.
Tuttavia, molti degli accordi conclusi dall’Italia non sono stati ancora completamente recepiti a livello domestico. La necessità di prevedere l’individuazione di un’unica lista valevole in ambito tributario, da aggiornare periodicamente alla luce dei progressi negli accordi conclusi dall’Italia a livello internazionale, non è più procrastinabile e darebbe maggiore certezza agli scambi commerciali con questi Paesi, oltre a fare chiarezza sull’applicabilità o meno delle numerose previsioni fiscali di sfavore previste dalla normativa nazionale.
Si pensi al caso di Hong Kong. L’Italia ha concluso con questo Paese una Convenzione contro le doppie imposizioni in vigore dal 10 agosto 2015. Inoltre, Hong Kong è stato espunto dalla black list valevole ai fini della normativa CFC sino al periodo di imposta 2015 (Dm 21 novembre 2001) e da quella relativa al regime di indeducibilità dei costi di cui all’articolo 110 del Testo unico delle imposte sui redditi (Dm 23 gennaio 2002), quest’ultima peraltro ormai irrilevante in considerazione del venir meno del regime di indeducibilità in questione dal 2016.
Ciònonostante, la ex colonia britannica risulta ancora inclusa nella black list (Dm 4 maggio 1999) che genera l’inversione dell’onere della prova circa la residenza fiscale in Italia delle persone fisiche che si trasferiscono in questo Paese; lista che rileva anche ai fini:
– del raddoppio dei termini di decadenza per le violazioni in materia di monitoraggio fiscale e di accertamento dei redditi connessi alle attività detenute in questo Paese,
– del raddoppio delle sanzioni amministrative per le violazioni degli obblighi di monitoraggio fiscale;
– della presunzione relativa che considera formati con redditi sottratti a tassazione gli investimenti e le attività finanziarie ivi costituiti o detenuti.
Per di più, Hong Kong è stato recentemente inserito nella white list (Dm 4 settembre 1996) che rileva, in positivo, per individuare i soggetti residenti in Stati che godono dell’esenzione dall’imposta sostitutiva sugli interessi delle obbligazioni e dei titoli dei «grandi emittenti» (ex D.Lgs. n. 239/1996), e, in negativo, per individuare le giurisdizioni non collaborative in relazione alle quali si rende necessaria la compilazione del modello RW secondo il cosiddetto approccio look through.
Disparità di trattamento
Simili corti circuiti normativi rischiano di creare ingiustificate disparità di trattamento tra identiche categorie di contribuenti, anche nella riapertura della voluntary disclosure e in relazione al (già utilizzabile) ravvedimento operoso.
I Paesi che, pur essendo diventati “collaborativi” sotto il profilo convenzionale, risultano ancora inseriti nella black list del Dm 4 maggio 1999 e in quella del Dm 21 novembre 2001 potrebbero infatti subire le disposizioni di sfavore.
Ad esempio, per regolarizzare eventuali violazioni tributarie connesse ad attività detenute in un Paese, si pensi alla Svizzera, che ha firmato un accordo ma che è ancora inserito nella lista del Dm 4 maggio 1999, occorre pagare per i periodi di imposta fino a 4 oppure a 8 anni fa (fino a 5 o a 10 anni dal 2016)?
Allo stato attuale, ad esempio in caso di ravvedimento operoso, si dovrebbero disapplicare le norme interne sulla base delle sovraordinate disposizioni internazionali ma c’è il rischio che qualcuno continui ad applicare le anacronistiche disposizioni da black list.
FONTE: IlSole24Ore.