Leasing e vizi del bene: quali azioni può esperire l’utilizzatore nei confronti del venditore?
La clausola generale di buona fede impone alla società di leasing di agire per la risoluzione del contratto di fornitura o per la riduzione del prezzo di compravendita ove il bene fornendo non sia stato consegnato ovvero risulti affetto da vizi.
Con sentenza n. 19785 del 26.5.2015, depositata in data 5.10.2015, le Sezioni Unite della Cassazione sono intervenute, eliminando un contrasto giurisprudenziale, sulla tutela riconoscibile all’utilizzatore del bene in leasing in caso di vizi della cosa locata ed in particolare sull’esperibilità in via diretta dell’azione di risoluzione del contratto per inadempimento del fornitore, indipendentemente dall’esistenza di una clausola negoziale che lo legittimi a far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui.
In primo grado, il Tribunale di Verona aveva disposto la risoluzione del contratto di fornitura, applicando in via analogica il disposto dell’art. 1705 comma 2 c.c. in tema di mandato senza rappresentanza. La pronuncia era stata annullata in appello per difetto di legittimazione attiva dell’utilizzatore. Con ricorso per cassazione, quindi, era stato formulato alla Suprema Corte il quesito di diritto “se vi è stata violazione e falsa applicazione dell’art. 1705 c.c. e dei criteri che presiedono all’interpretazione dei negozi giuridici in virtù dei quali nel contratto di locazione finanziaria all’utilizzatore è riconosciuta, quale effetto naturale connaturato all’operazione di locazione finanziaria stessa, una tutela diretta verso il fornitore per i vizi della cosa anche in assenza di specifiche clausole contrattuali, avendo ritenuto nel caso di specie la Corte di Appello di Venezia, nonostante la pacifica e documentata sussistenza della locazione finanziaria, il difetto di legittimazione attiva dell’utilizzatore, sul presupposto che la stessa dovesse avere la propria fonte in un patto contrattuale non rinvenuto agli atti del giudizio; dovendosi invece dichiarare sussistente la legittimazione attiva dell’odierna ricorrente quale utilizzatore nel contratto di locazione finanziaria (…), con ogni conseguenza di legge”.
Con ordinanza interlocutoria del 4.8.2014 n. 17597, la terza sezione della Cassazione aveva chiesto l’intervento nomofilattico delle Sezioni Unite in ordine alla “questione di massima di particolare importanza, concernente – con riguardo ai presupposti sostanziali e processuali di applicazione dell’art. 1705, secondo comma, c.c. alla locazione finanziaria – le azioni direttamente proponibili dall’utilizzatore nei confronti del venditore e, segnatamente, quella di risoluzione della vendita per inadempimento di quest’ultimo”.
Il busillis, sottolineavano i giudici a quibus, rinveniva la propria fonte nella ormai pacifica configurazione del leasing c.d. finanziario come collegamento negoziale tra il contratto di compravendita, intercorso tra società di leasing (lessor) e fornitore, ed il contratto di leasing in senso stretto, stipulato tra il lessor e l’utilizzatore (lessee). Abbandonato ormai quell’orientamento che sosteneva la natura unitaria e plurilaterale dello stesso, pur non essendo in discussione la causa comunque unitaria dell’intera operazione economica, era risultata controversa la tutelabilità dell’utilizzatore a fronte di un inadempimento del fornitore per mancata consegna del bene e soprattutto per vizi occulti della cosa. Mancando, infatti, un vincolo contrattuale diretto tra utilizzatore e fornitore, dottrina e giurisprudenza erano state tutte protese negli ultimi anni all’individuazione del meccanismo giuridico attraverso il quale, nell’inerzia della società di leasing, consentire al lessee un’azione diretta nei confronti del fornitore inadempiente, in deroga al principio di relatività degli effetti giuridici del contratto 1372 c.c.
La principale delle ricostruzioni favorevoli all’azione diretta poggiava sul parallelismo tra il rapporto lessor/lessee e quello mandante/mandatario senza rappresentanza: l’utilizzatore si sarebbe trovato in una posizione equiparabile a quella del mandante e la società di leasing a quella del mandatario senza rappresentanza. “L’operazione economica che interviene tra concedente, utilizzatore e fornitore (…) dà luogo (…) ad un collegamento negoziale tra un contratto di compravendita ed un contratto di locazione finanziaria, per effetto del quale l’utilizzatore è legittimato ad esercitare in nome proprio le azioni scaturenti dal contratto di fornitura. (…) in caso di leasing finanziario – atteso che con la conclusione del contratto di fornitura viene a realizzarsi nei confronti del terzo contraente quella stessa scissione di posizioni che si ha per i contratti conclusi dal mandatario senza rappresentanza (sicché ai sensi dell’art. 1705, secondo comma, c.c., il mandante ha diritto di far propri di fronte a terzi in via diretta e non in via surrogatoria i diritti di credito sorti in testa al mandatario, assumendo l’esecuzione dell’affare, a condizione che egli non pregiudichi i diritti spettanti al mandatario in base al contratto concluso, potendo il mandante peraltro esercitare in confronto del terzo le azioni derivanti dal contratto stipulato dal mandatario volte ad ottenere l’adempimento o il risarcimento del danno in caso di inadempimento) – l’utilizzatore è legittimato a far valere la pretesa all’adempimento del contratto di fornitura, oltre che al risarcimento del danno conseguentemente sofferto, nonché ancora all’accertamento dell’esatto corrispettivo spettante al fornitore: l’utilizzatore non è, invece, normalmente legittimato all’azione di risoluzione del contratto di vendita tra il fornitore e la società di leasing, salva la presenza di una clausola contrattuale che trasferisca in capo all’utilizzatore la posizione sostanziale spettante al concedente.
L’esclusione dell’azione di risoluzione del contratto trovava giustificazione nel dictum delle SS.UU. dell’8.10.2008, sentenza n. 24772, secondo la quale “l’espressione diritti di credito derivanti dall’esecuzione del mandato (art. 1705 comma 2 c.c..), che accorda al mandante pretese dirette nei confronti del terzo contraente, va circoscritta all’esercizio dei diritti sostanziali acquistati dal mandatario, rimanendo escluse le azioni poste a loro tutela (annullamento, risoluzione, rescissione, risarcimento danno”.
I giudici a quibus, tuttavia, dubitavano che tale decisum potesse trovare applicazione sic et simpliciter anche in materia di leasing finanziario, alla luce delle peculiarità di siffatto negozio giuridico e segnatamente:
L’utilizzatore a differenza del mandante ha un rapporto diretto con il fornitore, che individua personalmente e con cui tratta le condizioni di fornitura del bene, che la società di leasing dovrà acquistare;
Il passaggio della proprietà del bene compravenduto oggetto di leasing dal lessor al lessee è solo eventuale e comunque non opera, come nel mandato senza rappresentanza, a seguito di rivendica per i beni mobili o ex art. 2932 c.c. per i beni immobili e mobili registrati, ma per l’esercizio del diritto di riscatto previsto nella clausola di opzione;
La pronuncia del 2008 mira alla tutela del terzo contraente, che si rapporta con il solo mandatario ed ignora l’esistenza di un rapporto tra mandatario e mandante, avente ad oggetto proprio il contenuto del contratto da egli stipulato con il mandante; nella locazione finanziaria il fornitore è di contro consapevole del fatto che il bene è scelto dall’utilizzatore e che verrà acquistato dalla società di leasing, che a sua volta lo concederà in godimento al lessee.
Alla luce di ciò, ben sarebbe stato possibile parlare di una legittimazione dell’utilizzatore a far valere i diritti e le azioni del contratto di compravendita stipulato tra società di leasing e fornitore direttamente nei confronti di quest’ultimo, in quanto, “valorizzata la funzione economica non solo finanziaria, ma anche di scambio insita nel collegamento negoziale tra contratto di fornitura e leasing”, si sarebbe trattato in tutta evidenza di “una legittimazione non soltanto non aliena, ma addirittura coessenziale al contratto da lui stipulato”.
Ebbene, in via preliminare, le SS.UU. ricordano che, secondo un primo orientamento più risalente, il leasing finanziario era considerato un contratto unitario e plurilaterale: all’utilizzatore, pertanto, si riconosceva la facoltà, in quanto contraente, di agire per la risoluzione del contratto di vendita direttamente nei confronti del fornitore, curando però di convenire in giudizio anche il concedente; infatti, venendo in considerazione un’ipotesi di azione costitutiva incidente su un rapporto negoziale involgente più parti, si era senz’altro dinanzi ad un caso di litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c..
Questa ricostruzione era stata successivamente soppiantata da quella, ormai pacifica, secondo la quale il leasing finanziario realizzerebbe un’ipotesi di collegamento negoziale tra contratto di leasing in senso proprio e contratto di fornitura, venendo quest’ultimo concluso con lo scopo, noto al fornitore, di far conseguire all’utilizzatore il godimento ed eventualmente la disponibilità giuridica del bene compravenduto. I sostenitori di questa tesi, ritenendo invocabile in via analogica l’applicazione dell’art. 1705 c.c., avevano sostenuto che l’utilizzatore potesse esperire in via diretta nei confronti del fornitore le azioni derivanti dal contratto di fornitura spettanti alla società di leasing di carattere manutentivo (azione di adempimento e di esatto adempimento) e risarcitorio (risarcimento danni da inadempimento), anche in assenza di una precipua pattuizione. In mancanza di una specifica previsione pattizia del contratto di leasing, invece, avevano, poi, fermamente concluso per l’esclusione dell’azione di risoluzione, ostandovi la previsione del secondo comma dell’art. 1705 c.c. per cui “i terzi non hanno alcun rapporto con il mandante. Tuttavia il mandante, sostituendosi al mandatario, può esercitare i diritti di credito derivanti dall’esecuzione del mandato, salvo che ciò possa pregiudicare i diritti attribuiti al mandatario dalle disposizioni degli articoli che seguono”. Era ritenuta, altresì, preclusa la possibilità per l’utilizzatore di opporre l’exceptio inadimpleti contractus, in relazione alla mancata consegna del bene ovvero alla consegna di un bene affetto da vizi della cosa che legittimerebbero il compratore all’esperimento delle azioni edilizie, per sospendere legittimamente il pagamento dei canoni di locazione ex art. 1460 c.c.. Tanto in ragione del fatto che la società di leasing rimaneva sostanzialmente estranea alle trattative precontrattuali tra fornitore ed utilizzatore ed era elemento naturale del negozio di leasing l’esonero del locatore da ogni responsabilità in ordine all’adempimento o corretto adempimento delle obbligazioni assunte dal fornitore, il cui rischio gravava in capo al solo utilizzatore.
Secondo gli Ermellini, non vi sarebbe dubbio in ordine alla dimensione trilaterale della vicenda e sulla correttezza dell’interpretazione giuridica della stessa in termini di collegamento tra i due contratti, di vendita e di leasing, che mantengono tuttavia la loro autonomia, tranne che per le sole “interdipendenze che realmente condizionano l’attuazione dell’operazione economica”. Rilevano che la prassi commerciale ha già in parte risolto il problema della tutelabilità dell’utilizzatore a fronte dell’inadempimento del fornitore, con la previsione, come contenuto standard dei contratti di leasing, di clausole di cessione all’utilizzatore dei diritti nascenti da responsabilità del fornitore. Precisano tuttavia che rimane viva la questione della tutela dell’utilizzatore, in mancanza di simili pattuizioni. Ad avviso delle SS.UU., nel caso che ci occupa, il principio di relatività degli effetti giuridici del contratto, ritenuto derogabile in casi di collegamento negoziale c.d. tecnico, osterebbe al riconoscimento del diritto dell’utilizzatore ad agire in via risolutiva nei confronti del fornitore. Perché si possa configurare un collegamento in senso tecnico, che impone di considerare la fattispecie unitaria secondo il principio simul stabunt simul cadent, “è necessario che ricorra sia un requisito oggettivo, costituito dal nesso teleologico tra i negozi, volti alla regolamentazione degli interessi reciproci delle parti nell’ambito di una finalità pratica consistente in un assetto economico globale ed unitario, sia un requisito soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti di volere non solo l’effetto tipico dei singoli negozi in concreto posti in essere, ma anche il coordinamento tra di essi per la realizzazione di un fine ulteriore, che trascende gli effetti tipici e che assume una propria autonomia anche da un punto di vista causale”. Nell’operazione di leasing, pur sussistendo sotto il profilo oggettivo il nesso teleologico ut supra, non si rinviene il nesso psicologico, sicché il collegamento negoziale non può essere considerato come collegamento tecnico per tre ordini di ragioni:
– l’utilizzatore sceglie il fornitore e contratta con lui il contenuto del contratto di compravendita, che il lessor si limiterà solo a sottoscrivere, ove decida di concludere con l’utilizzatore il contratto di leasing;
– il fornitore è conscio che il bene verrà acquistato da una società di leasing, che a sua volta lo concederà in locazione all’utilizzatore. Il motivo per il quale la società de qua acquista, tuttavia, rimane un dato esterno al contratto di compravendita, assolutamente inidoneo ad incidere sulla causa tipica del contratto, in ossequio al principio della irrilevanza dei motivi ai fini della validità ed efficacia del contratto, salva l’ipotesi del motivo illecito comune ad entrambi i contraenti ex art. 1345 c.c.. La causa, infatti, in concreto rimane quella di scambio di un bene versus il corrispettivo di un prezzo;
– una volta concesso il finanziamento, il concedente è del tutto disinteressato all’esecuzione del contratto di fornitura in favore del terzo.
La correttezza di queste affermazioni troverebbe conforto, ad avviso dei Giudici di legittimità, proprio nella Convenzione di Ottawa 1988 sul leasing finanziario internazionale, ratificata nel 1993, e nel TUB 1993. Entrambe i testi legislativi citati per un verso non consentono all’utilizzatore di agire per la risoluzione del contratto di fornitura direttamente nei confronti del fornitore; dall’altro, però, lo facoltizzano a richiedere in tal senso l’intervento del lessor, con sospensione automatica del pagamento dei canoni contestualmente alla comunicazione della richiesta de qua. Effetto quest’ultimo previsto allo scopo di compulsare il lessor ad agire celermente a tutela dell’utilizzatore.
Per le identiche ragioni, affermano ancora le SS.UU., andrebbe esclusa la possibilità per l’utilizzatore di esperire l’actio quanti minoris nei confronti del fornitore, che, essendo un rimedio sinallagmatico, andrebbe a modificare i termini dello scambio nel rapporto tra concedente e fornitore.
Aderiscono, pertanto, all’orientamento maggioritario che in giurisprudenza ritiene che l’utilizzatore possa agire in via diretta nei confronti del fornitore solo per l’ottenimento dell’adempimento o dell’esatto adempimento e del risarcimento danni connesso, mentre la risoluzione del contratto di fornitura e l’azione di riduzione del prezzo sarebbero subordinate alla espressa previsione di una clausola pattizia nel contratto di leasing, avente ad oggetto la cessione di tali diritti dalla società di leasing all’utilizzatore.
Pur tuttavia l’utilizzatore non può essere lasciato sfornito di garanzie, allorquando tali clausole non siano state predisposte e la società di leasing non si adoperi spontaneamente a sostegno degli interessi dell’utilizzatore. Viene, pertanto, individuato un rimedio ad hoc che nel rispetto del principio ex art. 1372 c.c., consenta all’utilizzatore di ottenere una tutela eguale a quella che gli rinverrebbe dal riconoscimento di un’azione diretta nei confronti del fornitore.
Allora, ferma restando la tutela aquiliana ex art. 2043 c.c. nei confronti del fornitore, che con la propria condotta abbia determinato l’impossibilità per il lessee di ritrarre le utilità convenute con il contratto di leasing, le Sezioni Unite propugnano una soluzione innovativa, distinguendo due eventualità:
in caso di mancata consegna del bene ovvero di rifiuto dell’utilizzatore di accusare in ricezione il bene, riscontrati i vizi che ne inficino il valore o l’impiego del bene per l’uso convenuto, la società di leasing ha l’obbligo di sospendere il pagamento del prezzo al fornitore; sussistendone i presupposti, poi, è altresì obbligata all’esperimento dell’azione di risoluzione del contratto di fornitura, al cui scioglimento segue, come effetto diretto ed automatico, il travolgimento anche del contratto di leasing;
in caso di vizi occulti o in mala fede taciuti dal forniture, di cui l’utilizzatore si avveda dopo la sottoscrizione del verbale di accettazione della consegna, il lessee può agire direttamente nei confronti del fornitore per l’eliminazione dei vizi o la sostituzione del bene. Qualora ricorrano le condizioni legittimanti la risoluzione del contratto, invece, il concedente, informato dall’utilizzatore dell’emersione dei vizi, ha l’obbligo ex artt. 2 cost. e 1375 c.c., di agire nei confronti del fornitore per la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo, con i medesimi effetti di cui sopra.
In ogni caso, l’utilizzatore può agire contro il fornitore per il risarcimento dei danni, compresa la restituzione della somma corrispondente ai canoni eventualmente pagati al concedente e da questi trattenuti, con una previsione contrattuale più ampia di quella prevista dall’art. 1458 comma 1 c.c. i contratti simallagmatici con prestazioni periodiche.
La soluzione offerta dalle Sezioni Unite costituisce un mirabile esempio di ingegneria giuridica, nell’ottica dell’equo bilanciamento tra gli interessi della società di leasing ad assumere e conservare il ruolo di mero finanziatore e quello dell’utilizzatore di acquisire la detenzione qualificata di un bene rispondente alle pattuizioni convenute con il fornitore. Il limite derivante dal principio di relatività degli effetti giuridici del contratto viene superato grazie all’imposta conformazione della condotta del lessor alla clausola generale di buona fede nell’esecuzione del contratto di leasing, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2 Cost. e 1375 c.c.
In capo alla società di leasing viene riconosciuto, dunque, un vero e proprio obbligo giuridico di attivarsi a protezione degli interessi dell’utilizzatore, ulteriore e financo incompatibile con la previsione, eventualmente contenuta nel contratto di leasing, di assoluta impermeabilità della posizione del concedente rispetto alle vicende dell’esecuzione del contratto di fornitura. Il concedente è tenuto ex lege ad agire per la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo, appena ricevuta dal lessee comunicazione dell’inadempimento e previa costituzione in mora dell’inadempiente. Con la richiesta rivoltagli dall’utilizzatore, si determina comunque la sospensione immediata del pagamento dei canoni di locazione, sicché per l’utilizzatore viene approntata una tutela sostanzialmente eguale a quella che gli deriverebbe dal riconoscimento di un’azione diretta nei confronti del fornitore; la risoluzione del contratto di fornitura comporta poi l’automatico travolgimento del contratto di leasing. L’utilizzatore può chiedere al fornitore il risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c., eziologicamente correlati al di lui inadempimento, comprensivi della restituzione dei canoni già pagati alla società di leasing.
Merita, ad avviso della scrivente, sottolineare che tra le azioni esperibili in via diretta dall’utilizzatore le SS.UU. hanno individuato anche quella volta alla eliminazione dei vizi della cosa ovvero alla sostituzione del bene difettoso. Si tratta di un passaggio importante che investe per un verso l’ampiezza della tutela riconosciuta all’acquirente – atteso che “utilizzatore” può essere una persona fisica, giuridica o un ente privo di personalità – e per altro la problematica, assai più ampia e che qui non può essere trattata se non en passant, dell’actio finium regundorum tra azione di esatto adempimento e azione di risarcimento del danno in forma specifica e della praticabilità di quest’ultima nell’ambito della responsabilità contrattuale, in difetto di una previsione espressa simile all’art. 2058 c.c.. Al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge, come in materia di acquisto di beni di consumo regolata nel TUC dlgs. n. 206/2005, è controverso, infatti, che l’acquirente possa esperire solo le azioni edilizie di cui agli artt. 1490 e 1492 c.c.. ovvero chiedere anche la sostituzione del bene viziato o la sua riparazione come modalità concrete di esatto adempimento.
Recentemente la stesse SS.UU, sentenza n. 19702 del 13.11.2012, con riferimento all’impegno del venditore a riparare il bene viziato, avevano affermato che, pur non dando luogo necessariamente ad una novazione, ove difetti l’animus novandi ex art. 1260 c.c., “l’obbligazione assunta e’ autonoma e distinta della garanzia che legittima l’esercizio delle azioni di riduzione del prezzo o di risoluzione del contratto” e come tale soggetta all’ordinario termine prescrizionale ex art. 2946 c.c.. Al di là della esclusività delle azioni edili sostenuta in questa pronuncia, di cui dubita la dottrina ed una giurisprudenza minoritaria, la Corte aveva escluso la riconducibilità della stessa all’azione generale di adempimento/esatto adempimento 1453 comma 1 c.c.: imponendo al venditore di ottemperare ad un obbligo sorto successivamente alla vendita e non preesistente ad essa, l’obbligazione conseguente si configurava come un novum di facere e non di dare.
In ragione della genericità dello status di utilizzatore, quindi, sembra potersi desumere dalla pronuncia in commento una presa di posizione delle Sezioni Unite innovativa anche in punto di tutela dell’acquirente per i vizi della cosa, con il disconoscimento della esclusività dei rimedi edili e l’affermazione piuttosto della loro complementarietà agli strumenti generali di tutela del contraente, in vista della fondazione di uno loro statuto unitario.
Leggi qui sent. Cass.civ. sez. un. n. 19785 del 5.10.2015
Fonte: Altalex.