Cassazione civile, sez. I , 10 gennaio 1998, n. 153 – Pres. Borruso – Est. Rovelli.
Società – Di persone fisiche – Società semplice – Scioglimento – Esclusione – Ad opera degli altri soci – Procedimento – Delibera di esclusione – Necessaria contestuale convocazione di tutti i soci – Esclusione – Raccolta delle singole manifestazioni di volontà dei soci idonei a formare la maggioranza richiesta ex art. 2287 cod. civ. – Sufficienza – Fondamento – Previsione dell’organo e del metodo assembleare nelle società di persone fisiche – Esclusione.
Nella disciplina legale delle società di persone manca la previsione dell’organo e del metodo assembleare, con la conseguenza che, dovendosi adottare la delibera di esclusione di un socio (per la quale è richiesta la maggioranza dei soci non computandosi tra questi quello da escludere), non è necessario che siano consultati tutti i soci, ne’ che essi manifestino contestualmente la propria volontà attraverso una delibera unitaria, essendo sufficiente raccogliere le singole volontà idonee a formare la richiesta maggioranza e comunicare la delibera di esclusione al socio escluso, affinché egli sia posto in condizione di esercitare la facoltà di opposizione dinanzi al tribunale. (massima ufficiale)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Renato BORRUSO – Presidente –
Dott. Rosario DE MUSIS – Consigliere –
Dott. Gian Carlo BIBOLINI – Consigliere –
Dott. Ugo VITRONE – Consigliere –
Dott. Luigi ROVELLI – Rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente
S E N T E N Z A
sul ricorso proposto da:
BASSANI DANIELA, elettivamente domiciliata in ROMA V.LE DELLE MILIZIE 19, presso l’avvocato LANIA ALDO LUCIO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato PIERO CASTELLINI, giusta delega a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
GI.EMME Snc di M. MINELLA & C., in persona del socio amministratore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA B. DEGLI UBALDI 66, presso gli avvocati ANTONIO CAPPELLINI, VINCENZO RINALDI, che la rappresentano e difendono giusta delega a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n.1018/94 della Corte d’Appello di VENEZIA, emessa il 30/6/94 – 14/7/94.
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 7/4/97 dal Relatore Consigliere Dott. Luigi ROVELLI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Vincenzo MACCARONE che ha concluso per il rigetto del 1 e 2 motivo, accoglimento del 3 motivo del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Tribunale di Padova, con sentenza depositata il 20.6.1990 – premesso che la società GI.EMME s.n.c. era composta da quattro soci, aventi quote paritarie (i coniugi Golinelli Tino – Ileana Orsetti e Minella Maurizio – Bassani Daniela) e che in data 6.2.1988 era stata deliberata, da parte del Golinelli e dell’Orsetti, l’esclusione, da socio, della Bassani, per violazione all’art. 9 dello statuto, ed in particolare per non aver mai prestato attività di collaborazione nella società- definitivamente decidendo, accoglieva l’opposizione, proposta dalla Bassani, e per l’effetto dichiarava nulla la delibera 6.2.1988 predetta.
Il Tribunale, pur ritenendo che, nella società di persone, la convocazione dell’assemblea, ai fini di deliberare sull’esclusione del socio, ai sensi dell’art. 2287 c.c., possa avvenire anche informalmente, e c.p.c. che quindi le singole manifestazioni di volontà, per formare la maggioranza, possano essere raccolte anche separatamente, ha statuito la necessità che tutti i soci siano interpellati, cosa che non era avvenuta nei confronti di Minella Maurizio.
Avverso questa sentenza, non notificata, veniva proposto tempestivo appello dalla società, con atto di citazione del 26.2.1991. Rilevava l’appellante che l’interpello del socio Minella sarebbe stato del tutto inutile, in quanto la delibera era stata presa da soci, che possedevano il 50% del capitale e cioè la maggioranza, non dovendosi computare la quota del 25% della socia da escludere. Si costituiva l’appellato, che resisteva all’impugnazione rilevando:
-la nullità dell’appello per difetto di conclusioni;
-l’inaccoglibilità dello stesso sia per non essere state proposte domande di merito, in relazione alla necessità del grave inadempimento tale da giustificare l’esclusione del socio. La Corte d’Appello di Venezia, con sentenza depositata il 14.7.1994, in accoglimento dell’appello, rigettava l’opposizione proposta dalla Bassani alla delibera di esclusione di socio della GI.EMME s.n.c. Rilevava la Corte che l’art. 2287 c.c. prevede solo che l’esclusione sia deliberata dalla maggioranza dei soci, non l’interpello degli altri soci. Rigettava, poi, l’eccezione di non gravità dell’addebito attribuito alla Bassani, fondata sul rilievo che “solo mariti” prestavano la loro opera continuativamente nella società, mentre entrambe le mogli svolgevano attività saltuarie, rilevando da un lato che le parti, prevedendo apposita clausola, hanno inteso dare particolare rilievo all’obbligo di collaborazione posto a carico dei soci, dall’altro che l’inadempimento a tale obbligo della Bassani è sostanzialmente incontestato, essendosi essa limitata a dedurre a prova di non essere la sola a disinteressarsi della società. Avverso detta sentenza la Bassani ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre mezzi di annullamento. Resisteva la società intimata, notificando controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione dell’art. 132 c.p.c. assumendo che, a fronte della propria eccezione di nullità della citazione in appello, per difetto assoluto dei motivi specifici, la motivazione dei giudici di appello si limita a dire che i motivi di appello “sono puntuali e precisi”.
Tale motivo appare destituito di fondamento.
La Corte veneziana, infatti, ha specificato, a fronte dell’eccezione sopra formulata nella sua genericità, che sia il petitum sia la causa petendi che sorreggono l’alto gravame sono ben individuati e precisi, riportandone il contenuto essenziale in tal modo adempiendo alle condizioni richieste per integrare il requisito formale posto dalla norma processuale di cui si lamenta la violazione. Con il secondo motivo, deducendo violazione dell’art. 2287 c.c., la ricorrente assume che, ancorché non sia da ritenere necessaria la partecipazione del socio escludendo alla delibera sociale di esclusione, è pur sempre necessaria una delibera, il che impone l’adozione del metodo collegiale. Inoltre i quattro soci erano “rispettivamente marito e moglie”, e ciascuna coppia era titolare di quote per il 50%, con la conseguenza che si sarebbe dovuto applicare l’art. 2287 ultimo comma e la esclusione doveva essere richiesta giudizialmente.
Anche tale motivo non appare fondato alla stregua delle osservazioni che seguono.
Ed invero la giurisprudenza di questa Corte -costante a partire dalla sentenza 6.3.1953 n. 536, e seguita anche dai giudici di merito- (v. Cass. n. 1977 del 1973; n. 2603/1958; n. 1037/1957; n. 664/1955) afferma che nella disciplina legale della società di persone manca la previsione dell’organo e del metodo assembleare;
per cui allorquando si debba adottare la delibera di esclusione di un socio, per cui la legge richiede la volontà della “maggioranza dei soci, non computandosi nel numero di questi il socio da escludere”, non è necessaria la consultazione di tutti i soci, ne’ la contestualità della manifestazione di volontà espresso, attraverso una delibera unitaria in senso formale, “ma è sufficiente raccogliere le singole volontà idonee a formare la maggioranza, anche separatamente, salvo, poi, a comunicare la deliberazione di esclusione al socio escluso, affinché questi sia posto in condizione di esercitare la facoltà di opposizione dinanzi al Tribunale”. Anche a ritenere, correttamente, che l’esclusione di un socio per una delle ragioni scrutinate all’art. 2286 sia atto della società (e non degli altri soci) egualmente si “deve aver riguardo esclusivamente alla volontà degli altri soci, e cioè alla somma delle loro volontà individuali, e non già a quella di un organo assembleare”. Per ciò che concerne la prospettata esigenza di applicare (in via analogica) la disciplina prevista (art. 2287 III comma) per l’ipotesi che la società si componga di due soli soci, alla fattispecie, ricorrente nel caso concreto, in cui all’interno della compagine sociale siano configurabili due gruppi di interesse omogenei (per l’esistenza all’interno di un rapporto di coniugio) e fra loro contrapposti, ugualmente si deve ritenere che il disposto della norma che pone l’eccezione alla regola posta del I comma dell’art. 2287, è tassativo nel senso di limitare l’applicabilità della speciale disciplina ivi contemplata al caso di società composta da due soli soci. Non solo l’eccezionalità della previsione è di ostacolo all’estensione analogica, ma, a ben vedere, neppure è ravvisabile il requisito della eadem ratio. Ed invero la norma che, nella società di due soci, prevede che l’esclusione debba essere necessariamente pronunziata dal Tribunale, è giustificata dal fatto che, dovendo la maggioranza richiesta computarsi per capi e non per quote (sia pure con il correttivo di non computare, nel calcolo del numero dei soci, quello da escludere), nella società composta da due soli soci, tale maggioranza non potrebbe mai essere raggiunta: con la conseguenza che l’esclusione unilateralmente decisa da uno dei due soci, sarebbe illegittima, pur in assenza di opposizione del socio escluso (Cass. n. 3863/1986 ) ed in presenza delle ragioni giustificative. Nella fattispecie in esame, invece, la “pluripersonalità” rende possibile una delibera di esclusione formalmente legittima. Anche da un punto di vista sostanziale, difetta la circostanza, sottesa alla previsione di cui al terzo comma dell’art. 2287,che la causa dell’esclusione trovi divisa la compagine sociale in due parti, perché, ancorché sul piano psicologico operi una solidarietà fra i membri dei due gruppi contrapposti, difetta la ricorrenza tra i soci di un gruppo, di un vincolo di comune responsabilità -determinato dalla attribuzione di una medesima causa di esclusione- in quanto la decisione è finalizzata alla esclusione di uno solo dei membri del gruppo antagonista a quello che ha espresso la volontà di esclusione, e per ragioni solo allo stesso imputabili.
Con il terzo motivo, la ricorrente si duole dell’errata applicazione dell’art. 2286 c.c., rilevando che il giudice di merito ha considerato sufficiente la violazione di un obbligo statutario, laddove il fatto contestato andava valutato nel quadro degli obblighi derivanti dallo statuto sociale, alla stregua dei parametri di cui all’art. 1455 c.c. La valutazione in ordine alla gravità dell’inadempimento non poteva prescindere ne’ della durata ultranovennale della vita della società, durante la quale non è stata avvertita grave lesione degli interessi sociali, ne’ dalla circostanza che analogo comportamento, per lo stesso periodo temporale, era stato tenuto dall’altra socia, senza che, per entrambe il mancato rispetto dell’art. 9 dello Statuto sia stato ritenuto grave inadempienza.
Tale motivo appare fondato sulla base dei rilievi che seguono. Ed invero, a fronte dell’eccezione, proposta dalla opponente Bassani secondo cui l’esclusione non sarebbe giustificata da gravi inadempienze, ad esse imputabili, in quanto, per tutta la durata della vita sociale, le due consorti dei soci Galinelli e Minella prestarono attività lavorativa specifica, nell’azienda, solo molto raramente, e se chiamate dai rispettivi consorti, si è limitato a rilevare che il predetto obbligo è previsto nella clausola di cui all’art. 9 del contratto sociale, e per ciò stesso di “particolare importanza”.
Ora l’esclusione del socio per gravi inadempienze derivanti dalla legge o dal contratto sociale, costituisce la reazione predisposta dall’ordinamento, che da luogo allo scioglimento parziale del contratto sociale, alternativa al generale rimedio della risoluzione per inadempimento, ma giustificata non da qualsivoglia inadempienza ad obblighi stabiliti dalla legge o dal contratto sociale, bensì solo a quelle connotate dal requisito della “gravità”. Requisito che va riferito allo specifico interesse della società che sia stato leso, avuto riguardo alla gravità dell’inadempimento “in relazione all’aspetto funzionale del contratto di società” (Cass. n. 1936/1989). Ora, seppure la specifica previsione di un obbligo in una clausola contrattuale, costituisca un indice dell’importanza che le parti hanno inteso attribuire ad esso, l’indagine sulla gravità dell’inadempimento non può esaurirsi nel rilievo della violazione di un obbligo stabilito dal contratto sociale, quando viene dedotto che il comportamento ritenuto lesivo della clausola statutaria è stato identico per tutta la durata (di circa nove anni) del rapporto sociale senza che sia emerso, prima, un apprezzamento di esso come gravemente lesivo degli interessi sociali, ne’ indicato (in sentenza) il concreto pregiudizio, rispetto al conseguimento dei fini sociali, del comportamento tenuto dalla Bassani.
Comportamento che, secondo quanto dalla stessa allegato e dedotto a prova, non è stato, diverso per tutta la durata del rapporto, da quello posto in essere dall’altra socia, secondo una “prassi” che, ancorché disapplicativa della clausola statutaria, non avrebbe inciso significativamente nel raggiungimento delle finalità lucrative dell’impresa sociale e, in quanto incidente in eguale misura su ciascuno dei due gruppi di soci, non avrebbe avuto efficacia squilibrante sul sinallagma contrattuale. Ogni valutazione, sul punto, da parte del giudice di merito è mancata, essendosi la motivazione fermata al mero rilievo della contrarietà del comportamento della Bassani, rispetto al precetto della clausola contrattuale, senza apprezzamenti circa la concreta incidenza di quel comportamento sull’aspetto funzionale del contratto sociale. In relazione al motivo accolto la sentenza impugnata deve essere cassata e la causa rimessa -anche per le spese del giudizio di cassazione- al giudice di rinvio, designato in dispositivo. P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso;
respinge i primi due motivi;
cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, ad altra Sezione della Corte d’Appello di Venezia.
Roma, lì 7 aprile 1997.