Di Maria Lucia Panucci 13/06/2013
Non lavorano, non studiano, non imparano un mestiere.
In Francia li chiamano néné, né lavoratori né studenti. In Spagna ni-ni, con significato analogo. Per gli americani sono “twixter”. Eppure in tutto il mondo sono noti come i Neet, acronimo inglese (not in education, employment or training) che i sociologi hanno coniato per descrivere quei ragazzi tra i 18 e i 25 anni che non vanno più a scuola e tanto meno hanno un’occupazione o la cercano. Insomma sonnecchiano e “vivacchiano” rassegnati.
I Neet stanno diventando una vera e propria piaga sociale perfino nell’alacre Giappone dove sono stati definiti “Hikikomori”, ovvero single parassiti. E in Italia? Dall’ultima indagine Istat sono arrivati a 2 milioni 250 mila nel 2012, pari al 23,9%, in pratica uno su quattro. Detto in parole povere il nostro paese ha la quota più alta d’Europa di ragazzi under 30 che non lavorano nè studiano. Ma chi sono veramente questi giovani “invisibili” e soprattutto come passano le loro giornate? Alcuni li definiscono i veri “bamboccioni” brunettiani.
Non possono accedere a molti dei profili occupazionali esistenti perché sono sprovvisti di qualifiche. Quando saranno troppo vecchi anche per i lavori più umili e quando la loro unica forma di sostentamento (mamma e papà) verrà a mancare, saranno dei quarantenni senza lavoro, alcuni senza una casa e tutti senza la prospettiva di una pensione. Benedetto, di 28 anni, racconta le sue abitudini da “neet”: «Dopo 10 mesi di inattività sono diventato abbastanza bravo a occupare il mio tempo. Di solito la mattina passo ore davanti al computer. Ho un appuntamento settimanale quasi fisso in sala da biliardo e quando mi va mi dedico all’arredamento di una casa vicino a quella dei miei che so che non abiterò mai. Altrimenti leggo i libri che mi ero sempre detto che avrei letto».
Se i neet scelgono di non studiare e non hanno lavoro perché non lo cercano nemmeno, ci sono molti altri giovani che anche volendo non trovano un’occupazione neanche a pagarla oro. Tutta colpa della crisi che non accenna a rallentare. Basti pensare che solo il 57,6% dei laureati o diplomati italiani tra 20 e 34 anni lavora entro tre anni dalla conclusione del proprio percorso di formazione. Dati preoccupanti soprattutto se si considera che nel resto d’Europa la media è al 77% e l’obiettivo al 2020 è l’82%. Ma non è tutto. Contrariamente allo standard europeo il numero di immatricolati, dottorandi e ricercatori in Italia è in forte calo. Parola del Cun (Consiglio Universitario Nazionale) che evidenzia come il nostro paese sia passato da 338.482 a 280.144 studenti che decidono di accedere ai normali corsi di laurea: in pratica il 17% degli immatricolati in meno negli ultimi 10 anni. Numeri allarmanti ma che stupiscono ben poco. Se fino a qualche anno fa infatti, a torto o a ragione, il “pezzo di carta” veniva visto come lasciapassare per il mondo del lavoro, adesso anche l’Istat certifica che la laurea non da più nessuna garanzia per poter essere assunti. Il 2012 registra un’impennata di giovani laureati senza lavoro, con i dottori under 35 a caccia di un impiego arrivati ormai a sfiorare quota 200 mila, una crescita di circa il 28% rispetto al 2011 e quasi del 43% a paragone con il 2008, l’anno di inizio della crisi. I numeri più alti si registrano tra le ragazze e nel Mezzogiorno ma si tratta di un fenomeno quasi senza confini, tanto che in tutto, senza guardare all’età, in Italia si contano oltre 300 mila persone disoccupate, nonostante nel cassetto conservino un titolo di studio universitario. La scarsa domanda di lavoro, la penuria di posti liberi da riempire, i tagli occupazionali sempre più marcati si fanno sentire su chi può vantare l’istruzione più alta, nonostante rappresentino una piccola fetta della popolazione. Difficile trovare lavoro soprattutto per laureati in materie geo-biologiche o letterarie dove la disoccupazione si assesta al 31-32%, psicologiche (28,9%) e giuridiche (26,4%) mentre le lauree tecnico-scientifiche hanno tassi di disoccupazione inferiori, specialmente per Medicina e Ingegneria. Forse è proprio vero che l’Italia è un paese per vecchi, come si sente dire fuori dalle unversità. Un paese dove, per il momento, non si investe sui giovani, neanche su quelli che hanno, oserei dire, buttato, anni e anni dietro ad una scrivania. Ma i soldi servono a tutti ed è così che molti giovani, sfiduciati all’idea di trovare dopo la laurea un’occupazione consona agli studi svolti, sono costretti ad accettare mansioni precarie o addirittura ad andare all’estero pur di costruirsi una propria indipendenza economica. Alessandra, 30 anni, ha messo in un cassetto la sua laurea in “Marketing culturale” ed ha accettato un lavoro part-time in un noto fast food: «Alla mia età dipendere economicamente dai miei genitori mi pesava troppo ed ero disposta a fare qualsiasi cosa pur di uscire da questa condizione. Lavorare dietro ad un bancone e servire fritti non è esaltante ma la paga è buona e mi permette di essere autosufficiente. Certo, se avessi saputo che questa era la mia fine non avrei investito tanto tempo sui libri».
Ad onore del vero non tutti i nostri giovani sono disposti ad accontentarsi. Anzi, secondo quanto rivela uno studio della Confartigianato, ci sono quasi 150.000 posizioni che le imprese non riescono a coprire. Lavoro che c’è e che nessuno vuole fare. I giovani sembrano poco interessati ai cosiddetti “posti in piedi”, cioè quelli manuali, dove non si sta dietro ad una scrivania. Solo per fare un esempio manca l’83% dei 1.500 installatori di infissi di cui necessitano le aziende. E sono in pochi a voler fare il panettiere artigianale, probabilmente perché si deve lavorare di notte. Abbondano posti per gelatai e pasticcieri (il 29% dei 1.750 è ancora libero), come anche per aspiranti sarti e tagliatori artigianali (su quasi 2.000 posti di lavoro a disposizione ancora il 20% non è stato occupato). Nel settore della ristorazione le cose un po’ cambiano ma c’è comunque un buon numero di posizioni che non vengono coperte come quelle del barista o del cameriere. Molto richiesti sono anche badanti o infermieri. Il Censis stima che se fino a dieci anni fa quelli che svolgevano la mansione di colf erano circa un milione, oggi sono 1.655.000 (+53%): di questi solo il 22% sono italiani. Fra il 77,3% di stranieri la grande maggioranza sono rumeni, seguiti da ucraini, filippini, moldavi, marocchini, peruviani, polacchi e russi. Stessa cosa per gli infermieri: 7 su 10 provengono da un Paese europeo con in testa Romania e Polonia mentre quelli provenienti da Paesi asiatici sono passati dal 4% al 12,2%. Si tratta in tutti i casi di lavori che l’italiano snobba, forse abituato dalla televisione che un’occupazione è “dignitosa” solo se poco faticosa o forse perché la loro retribuzione è da miseria. Ecco che allora spunta l’immigrato che non ruba il lavoro al cittadino del Bel Paese, come spesso si pensa, ma svolge quelle mansioni umili, sottopagate, a volte anche in nero, che i nostri giovani, nonostante la crisi, rifiutano. Nell’edilizia ad esempio questi stranieri mettono a repentaglio ogni giorno la vita lavorando in cantieri pericolosi con imprenditori senza scrupoli e che non rispettano le norme di sicurezza. Spesso rimangono in Italia per un periodo limitato, giusto il tempo di racimolare un po’ di soldi da mandare alla famiglia nel paese d’origine. Ed è così che stringono i denti ed accettano anche di fare gli equilibristi su impalcature senza parapetti pur di non essere licenziati. In pratica l’immigrato è un personaggio richiesto perché lavora sodo e non pianta grane. Ma parliamoci chiaro: se il lavoro fosse sicuro e ben retribuito a tutti i livelli, a tal punto da garantire una vita accettabile, l’italiano tornerebbe gradualmente a ricoprire quei posti ora snobbati.