Prelievi dei professionisti, stop all’accertamento

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La tanto attesa notizia è finalmente giunta: la sentenza della Corte Costituzionale n. 228 del 2014 interviene in ordine all’annoso (e assai pericoloso sul piano dell’entità dei recuperi), problema del prelevamento dai conti bancari e postali da parte del professionista, escludendo che lo stesso possa essere posto a base dei compensi presuntivamente evasi.
Nel tempo, in sede di indagine finanziaria, l’Agenzia delle Entrate ha avuto vita fin troppo facile nel determinare maggiori imponibili, contestando in capo ai professionisti, tra l’altro, anche i prelevamenti non ritenuti idoneamente giustificati.
La presunzione operata fondava su una non felice previsione normativa secondo cui in presenza di prelevamenti dai propri conti correnti era onere del professionista dimostrare che gli stessi erano già stati considerati nella determinazione del reddito professionale, ovvero che erano estranei allo stesso, nel qual caso diveniva necessario indicare il beneficiario del prelevamento medesimo.
E’ comprensibile che possiate stentare a capire: cosa c’entrano i prelevamenti con un reddito non dichiarato? Al limite sembra concepibile porre in relazione i versamenti con un eventuale non reddito dichiarato.
Ebbene non è così: si conferma, trattasi dei prelevamenti.
La problematica, peraltro, ha assunto dimensioni notevoli dovendo tener presente che:
a nulla rilevava il rispetto delle soglie di utilizzo del contante previste nelle diverse annualità passate;
spesso e volentieri il professionista non ha avuto premura di annotare l’utilizzo (e dunque, il destinatario) del prelevamento, soprattutto nel caso di spese di carattere personale; o perché non si conservava la copia dell’assegno staccato, o in quanto l’importo complessivo prelevato era destinato a diversi utilizzi, dei quali a distanza di anni non si aveva memoria;
i conti utilizzati erano solitamente a utilizzo promiscuo tra attività professionale e ambito familiare, dovendo peraltro tener presente che non sono mai esistiti obblighi contabili pregnanti circa la tracciabilità dei pagamenti;
l’onere probatorio è stato frequentemente esteso a soggetti terzi (come ad esempio il coniuge del professionista), con la necessità di ulteriormente documentare anche in ordine ai prelievi dai conti correnti di altre persone;
le tecniche difensive non erano affatto pacifiche, posto che l’amministrazione finanziaria raramente ha ammesso la mera indicazione del beneficiario (come invece la norma prevede), non accettando nemmeno la matrice dell’assegno e richiedendo spesso ulteriore documentazione, con aggravio di costi (ad esempio, richiedere le copie degli assegni alle banche è un esercizio molto oneroso, peraltro non sempre soddisfatto posto che gli istituti di credito non sempre conservano detti documenti, soprattutto in presenza di particolari eventi, come acquisizioni, fusioni e trasformazioni in diversi gruppi bancari).

La sentenza della Corte Costituzionale n. 228 del 2014
Il vero problema delle indagini finanziarie è il loro utilizzo asettico da parte di alcuni uffici, troppo influenzati da obiettivi di budget e dimentichi del loro reale compito amministrativo: garantire il rispetto dell’articolo 53 della Costituzione. Tale articolo richiede che tutti i contribuenti partecipino, secondo criteri di progressività, alla spesa pubblica in funzione del reddito percepito. In ciò si sostanzia il fine dell’amministrazione finanziaria, ossia determinare il reale reddito del contribuente, non il maggior reddito possibile. Peraltro le indagini finanziarie richiedono delle cautele precise, quali procedere a contestazioni di singole movimentazioni se non collegate alla contabilità del contribuente, con l’ulteriore accortezza, per quanto concerne i prelievi, di recepire l’indicazione del beneficiario.
Nella pratica accertativa, invece, le sorprese sono state molteplici, quali ad esempio:
la contestazione di versamenti di contanti idealmente collegati agli importi introitati. Si pensi ad un dentista, che in una settimana emette fatture per un importo di 1.000,00 euro. Nulla vieta che tale professionista trattenga una parte per i propri interessi personali (ad esempio 300,00 euro), ne spenda 200,00 per motivi lavorativi (con relativa fattura) e infine decida di versare 500,00 euro in banca la settimana successiva (posto che non sussiste nessun obbligo ad un versamento immediato degli incassi). Ebbene, spesso gli uffici contestano tali pagamenti, ritenendo che non siano collegati agli incassi introitati;
la contestazione di prelevamenti seppur concretamente tracciati. È il caso dei bonifici bancari. La norma richiede che il prelevamento sia collegato all’attività o rechi l’indicazione del beneficiario. Ebbene, nel caso del bonifico bancario è evidente che la norma sia in automatico soddisfatta, posta l’indicazione necessaria del beneficiario;
l’applicazione asettica degli accertamenti. Alcuni uffici, infatti, sono soliti recuperare i prelevamenti quali maggiori compensi senza preoccuparsi di rispettare l’articolo 53 della Costituzione, in particolare non riconoscendo nemmeno dei costi ipotetici, situazione francamente assurda;
i recupero altrettanto asettico di tutti i prelievi, senza mai riconoscere i ragionevoli utilizzi attinenti la sfera personale.
In parte lo scenario viene ora ridimensionato: la Corte Costituzionale, infatti, sottolinea che tali indagini non possono che essere costituzionalmente orientate e sulla base di tale assunto elimina la possibilità che nei confronti dei professionisti i prelevamenti possano essere considerati, presuntivamente, maggiori compensi.
Questi gli elementi cardine della sentenza:
l’attività svolta dai lavoratori autonomi si caratterizza per la preminenza dell’apporto del lavoro proprio e la marginalità dell’apparato organizzativo, che diviene quasi del tutto assente nei casi in cui è più accentuata la natura intellettuale dell’attività svolta, come per le professioni liberali;
il reddito professionale è normalmente gestito con un sistema di contabilità semplificata, con inevitabile e fisiologica promiscuità delle entrate e delle spese professionali e personali;
il mondo professionale è anche influenzato dall’introduzione dell’obbligo dei pagamenti tracciati, con conseguente limitazione dei pagamenti effettuati in contanti che possono prestarsi ad operazioni evasive.
In definitiva, rispetto ai prelevamenti nessuna contestazione può essere mossa. Ciò è vero non solo per il presente e futuro, ma anche per il passato, con la necessità dunque di richiedere l’autotutela per gli accertamenti già sollevati o già pendenti in commissione tributaria.

Altri spunti utili
La sentenza appena commentata offre altri importanti spunti difensivi, con particolare riguardo ai versamenti eventualmente contestati ai professionisti. L’assenza di obblighi contabili e la necessità di rispettare l’articolo 53 della Costituzione, infatti, tornano utili per dimostrare la complessiva attendibilità degli accaduti.
In merito, sono interessanti anche alcune sentenze delle commissioni tributarie, tra cui si richiamano la n. 335/17/13, della CTR Sicilia, sede di Catania, che ha adeguatamente evidenziato che in assenza di specifici obblighi contabili è impossibile chiedere al contribuente una completa riconciliazione tra movimentazioni finanziarie dei sui conti e accadimenti lavorativi, essendo altrimenti lo stesso onorato di una prova impossibile, nonché la n. 281/04/14 emessa dalla CTP di Ancona, riguardante il caso di un fisioterapista accertato. Così si esprime l’organo giudicante: “(….) risulta assurdo pretendere, come fa l’ufficio, di trovare un preciso riscontro fra il versato e l’incassato, quando quest’ultimo risulta ampiamente superiore al primo. Basterà quindi considerare che il ricorrente, operando con clientela privata, incassa (in parte) in contanti, per cui deciderà di trattenere quanto necessario per le proprie esigenze personali e famigliari, senza effettuare il passaggio nel conto corrente. Se poi, a posteriori, le esigenze saranno risultate sovrastimate o posticipate, egli si ritroverà con un’eccedenza di contante che andrà a sommarsi agli incassi nel frattempo effettuati. Per dare prova di ciò occorre che venisse imposto al contribuente la tenuta del giornale di cassa non solo per le operazioni commerciali ma anche per quelle personali e famigliari: il che non risulta ancora essere stato attuato dalla normativa tributaria!”….Per cui quello che l’Ufficio chiede al contribuente è una prova impossibile (nella pratica) da fornire, soprattutto se si considera che, essendo il contribuente soggetto a contabilità semplificata, non è tenuto ad effettuare le registrazioni dei conti bancari e della cassa”.
La motivazione della sentenza della CTP di Ancona si sposa alla perfezione con i principi posti a fondamento della decisione della Corte Costituzionale. La presenza di conti ad uso promiscuo (ossia anche per esigenze familiari) e l’assenza degli obblighi contabili sono i tratti distintivi del mondo professionale. Dando adeguato risalto alla necessità della giusta tassazione, deriva che non è possibile nemmeno recuperare asetticamente i versamenti di contanti, quando gli stessi in maniera ragionevole corrispondono agli importi incassati e fatturati, al netto di eventuali utilizzi personali. È il caso pertanto di conservare adeguata traccia non soltanto degli incassi in contanti, ma anche degli utilizzi, in modo da poter dimostrare, con significativa attendibilità, che gli importi versati derivano da componenti che già hanno concorso alla formazione del reddito professionale. In definitiva, con un minimo di accortezza e ragionevolezza, la difesa verso le indagini finanziarie è oggi a portata di mano: non mettersi nelle condizioni di poterla esplicare correttamente sarebbe un vero delitto.

Fonte : Confprofessioni

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