Class action avverso la pubblica amministrazione e la sua differenziazione rispetto a quella civile

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Di Paolo De Gregorio, avvocato in Roma

Per “class action” si intende una “azione giudiziale collettiva” , ossia, proposta da una pluralità di soggetti agenti per la tutela di interessi evidentemente comuni (rectius: omogenei) o comunque suscettibili di ricevere soddisfazione dalla emanazione di un’unica pronuncia giurisdizionale. L’utilizzo della terminologia anglosassone è determinata dal fatto che l’istituto è sorto in Inghilterra nei primi secoli successivi alla nascita del sistema di Common low  ed ha trovato ampia diffusione negli Stati Uniti di America ove , negli anni 60 venne disciplinata dalla famosa Federal Rule 23. Tale azione, come conosciuta nel modello anglosassone è una azione a carattere essenzialmente risarcitorio volta a tutelare una pluralità di utenti nei confronti di attività commerciali e/o produttive le quali, nel perseguimento di standard di sempre maggior competitività risultino lesive degli interessi dei consumatori . La utilità di tale azione appare evidente ove si considerino i benefici derivanti da una azione di gruppo in termini di abbattimento dei costi, ripartizione dei rischi in caso di soccombenza, maggior risonanza mediatica etc. rispetto ad una azione individuale.

Anche nel nostro ordinamento, soprattutto a seguito del riconoscimento a livello europeo della esigenza di una maggior tutela dei consumatori nei confronti dello strapotere di imprese  multinazionali in un sistema globalizzato è stata prevista una “class action” ed è quella prevista dall’art. 140  bis  del Dlvo 206/2005 ( codice del consumo) introdotto con la legge Finanziaria del 2008. Prima di tale data, a fronte di comportamenti anticoncorrenziali o comunque lesivi degli interessi dei consumatori,  era prevista unicamente che le Associazioni di consumatori riconosciute come rappresentative degli interessi collettivi in forza dell’iscrizione in apposito elenco Ministeriale potessero agire per ottenere la inibizione per il futuro del comportamento scorretto.

Con l’art. 140bis  si è introdotta invece una forma di tutela di tipo risarcitorio e si  è ampliata la sfera degli enti esponenziali  legittimati ad agire a tutela degli interessi legittimi rappresentati. Successivamente con la legge 99 del 2009 si è ulteriormente ampliato l’ambito di operatività della azione collettiva.

Nell’attuale formulazione la norma dopo aver individuato  specificamente le posizioni giuridiche suscettibili di tutela (lesioni dei diritti contrattuali o  connesse a prodotti difettosi o nocivi o derivanti da politiche anticoncorrenziali o scorrette) riconosce legittimazione ad agire anche a favore di singoli portatori di interessi propri della classe di appartenenza che usando una terminologia di stampo amministrativo potremmo definire “diffusi”. Trattasi di posizioni giuridiche attive appartenenti a più  persone accomunate da un interesse ad un medesimo bene della vita condiviso.

Oggi dunque l’art. 140 bis prevede una azione collettiva ( di classe) volta all’accertamento della responsabilità dell’impresa convenuta finalizzata all’ottenimento del risarcimento del danno subito dai consumatori esercitatile da ciascun componente della classe sia uti singuli, sia per il tramite delle associazioni cui viene conferito espresso mandato o mediante la partecipazione a comitati funzionali all’esercizio dell’azione stessa.

La norma a ben vedere non crea posizioni soggettive nuove ma le riconosce ai singoli elevando interessi “diffusi” , fino a ieri non tutelabili se non per il tramite di enti esponenziali , ad interessi autonomamente azionabili.

Ovviamente il riconoscimento al singolo del potere processuale di impulso non incide sulla natura collettiva  della posizione giuridica fatta valere e,  proprio in ragione di ciò,  la disciplina dell’art. 140 bis prevede e consente ai titolari degli interessi omogenei a quello del soggetto agente di intervenire nel procedimento mediante  una informale istanza di adesione.

La Class Action nel sistema amministrativo. Si dirà subito che parlare di “class action” in tale ambito è improprio in quanto l’azione ivi prevista , certamente “collettiva” non ha carattere risarcitorio e quindi , in questo senso difforme rispetto a quella elaborata nel sistema anglosassone da cui la definizione deriva.

Sarà meglio parlare di azione collettiva così come in effetti la definisce la norma che l’ha prevista: art. 4 della legge 04.03.2009 n° 15.

Con tale legge il Governo è stato delegato, tra l’altro, a modificare ed integrare il sistema di valutazione delle strutture e dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche al fine di assicurare elevati standard qualitativi ed economici dell’intero procedimento di produzione del servizio reso all’utenza tramite la valorizzazione del risultato ottenuto dalle singole strutture ed a prevedere mezzi di tutela giurisdizionale degli interessati nei confronti delle amministrazione e dei concessionari dei servizi pubblici che si discostano dagli standar  fissati o che violano le norme preposte al loro operato.

In particolare l’azione è prevista nei casi di violazione di termini o mancata adozione di atti amministrativi generali ed obbligatori non aventi contenuto normativo; nei casi di violazione degli obblighi contenuti nelle carte di servizio; nei casi di violazione di standard qualitativi ed economici stabiliti  per i concessionari di servizi pubblici  qualora l’amministratore non vi ponga rimedio a seguito della necessaria previa diffida che deve essergli notificata dall’amministrato – ricorrente.

La legge si inquadra nel processo interpretativo che tende a svincolare l’azione della P.A. dai rigorosi limiti cui la costringeva una interpretazione eccessivamente formalistica del principio di buon andamento, corollario del principio di legalità cristallizzato nell’art. 97 della Costituzione secondo cui il sindacato giurisdizionale sull’azione amministrativa doveva limitarsi all’osservanza della legalità formale della stessa essendo riservato al merito (insindacabile) ogni scelta circa il modo per perseguire l’interesse pubblico.

Abbandonata tale opinione si passò a considerarla secondo moderni criteri di tipo economico/aziendalistico e quindi secondo un principio di buon andamento in senso sostanziale

Così come per le imprese private  ciò che conta è il conseguimento di un profitto, per la P.A., intesa come “ impresa pubblica”, ciò che conta è il soddisfacimento dell’interesse pubblico e quindi  ogni scelta che consenta il raggiungimento di tale obiettivo è scelta legittima perché rappresenta applicazione del principio di buon andamento.

L’azione della PA deve essere intesa dunque secondo la seguente equazione: PA = impresa pubblica ; attività della PA = servizio pubblico;  sindacato giurisdizionale = verifica sostanziale circa tempi e modi di raggiungimento del risultato

Tale orientamento è stato perseguito attraverso molteplici provvedimenti legislativi quali, ad esempio,  la riforma della Dirigenza, la privatizzazione del pubblico impiego,  la stessa attuazione della Riforma del titolo V della Costituzione e, da ultimo,  le legge 15/2009 con i relativi decreti legislativi di attuazione chiamata con gergo giornalistico “ riforma Brunetta”.

Con tale ultimo si è voluto rafforzare l’idea che l’attività pubblica intesa come attività di produzione di un servizio verso l’utenza indifferenziata debba essere guidata da criteri economici/aziendalistici.

A tali fini  è stato  previsto che la stessa venga esercitata seguendo standard qualitativi economici previamente determinati e che la mancata osservanza di tali standard comporti responsabilità dirigenziale e sanzioni giudiziarie; sanzioni non a carattere risarcitorio ma volte a correggere e migliorare la produzione del servizio reso all’utenza e dalla stessa utenza sollecitato tramite appunto l’azione di cui il Dlvo 198/2009.  Con tale azione si riconosce dunque la possibilità ad un organo (giudiziale) esterno di controllare il rispetto da parte delle pubbliche amministrazioni  degli standard economici-qualitativi e degli altri obblighi loro imposti.

Nell’ottica di questa nuova e moderna visione dell’ “agere pubblico”  come “amministrazione di risultato” si comprende la funzione della class action in ambito amministrativo che da quella di stampo civilistico si differenzia notevolmente quanto a presupposti procedura e conseguenze .

Rimandando la verifica delle differenze procedurali all’esame comparativo delle relative discipline in questa sede preme sottolineare  che,  mentre con l’azione collettiva prevista dall’art. 140 BIS ciò che si lamenta è una situazione di squilibrio tra gli utenti di un servizio o i destinatari di un prodotto,  nella azione collettiva contro la PA ciò che si lamenta è il servizio in se , o meglio, le modalità di resa del servizio offerto secondo standard inferiori rispetto a quello prestabilito. In altri termini nella prima si lamenta la “conseguenza”  del cattivo agire nella seconda il “cattivo agire in se” .

Quanto ai rimedi, si ripete, mentre l’azione prevista dall’art. 140 bis è una azione di tipo risarcitorio, l’azione prevista dal Dlvo 198/2009 ha carattere  di mera sollecitazione alla modificazione o alla adozione di provvedimenti da parte della PA . Il giudice  accoglie la domanda se accerta la violazione , l’omissione o l’inadempimento di cui all’art. 1 comma 1 ordinando alla pubblica amministrazione o al concessionario di porvi rimedio entro un congruo termine …” .(art. 4 Dlvo 198/2009 ) ; ciò salva ed impregiudicata la possibilità per gli utenti di avvalersi degli altri rimedi giurisdizionali per ottenere soddisfazione risarcitoria qualora l’azione della PA abbia determinato un danno patrimoniale risarcibile ex art. 2043 c.c.

La mancata previsione di ogni profilo risarcitorio ha dato adito a forti critiche nei confronti di uno  strumento che di fatto si limita a rappresentare  un mero reclamo per un disservizio. Altro punto di criticità è rappresentato dalla previsione contenuta nell’art. 7 del Dlvo 198/09 il quale subordina la concreta applicazione del decreto alla emanazione di  uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e di concerto, per quanto di competenza, con gli altri Ministri interessati lasciando molti dubbi circa il  dies a quo di applicazione della normativa.

Né all’uopo possono aiutare le pronunce giurisprudenziali . La norma che prevedete l’istituto è entrata in vigore infatti solo il 1° gennaio 2010 per cui le applicazioni giurisprudenziali fino ad oggi sono state assai scarse.

Un caso tuttavia è balzato all’attenzione dei commentatori e delle cronache nazionali . Si tratta di un ricorso presentato dall’Associazione dei consumatori CODACONS nei confronti del Ministero della Istruzione Università e Ricerca  in primis e di altre Amministrazioni statali ai sensi e per gli effetti degli articoli 1 e 3 del dlvo 198/2009 per l’omessa emanazione degli atti generali volti a disciplinare l’erogazione del servizio scolastico e scongiurare il fenomeno del sovraffollamento delle aule. Il TAR Lazio investito della vicenda , nell’accogliere il ricorso ha avuto modo di precisare i casi in cui la class action può essere proposta e ciò l’ha fatto interpretando l’art. 7 nel senso di intendere tale disposizioni riferita esclusivamente alle ipotesi in cui sia necessario la previa definizione degli standard qualitativi ed economici e non anche nei casi quali quello oggetto del ricorso ove si lamenta la mancata emanazione di atti generali ed obbligatori[1]. Qui la posizione giuridica protetta è già astrattamente e compiutamente individuata onde non necessita alcuna  ulteriore attività da parte della Amministrazione.



[1] TAR Lazio Sez. III Bis del 20.01.2011 n° 06143/2010 Reg. Ric.

[1] TAR Lazio Sez. III Bis del 20.01.2011 n° 06143/2010 Reg. Ric.

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